1. Il rapporto pedagogia-biologia: una breve premessa
L'inizio della dinamica dialogica tra pedagogia e biologia, evolutasi, poi, nel rapporto pedagogia-neuroscienze e, più recentemente, nella nascita delle Scienze bioeducative, scaturisce dall'interesse fondamentale che ha indotto e induce ad indagare sul rapporto natura-cultura. Nasce, cioè, quando matura la convinzione di un necessario ampliamento dell'interpretazione di questo rapporto che non può più essere inteso come un bieco riduttivismo in alternativa ad un altrettanto bieco culturalismo.
Da un punto di vista più strettamente epistemologico, l'interpretazione più ampia ed articolata di questo raccordo si lega all'evoluzione della pedagogia come scienza che, iniziata già nel 1953 con De Bartolomeis si evolve con Debesse e Mialaret nella proposta costitutiva delle Scienze dell'educazione (1969-1978). Ne La pedagogia come scienza di De Bartolomeis (1953), la pedagogia si configura come scienza in grado di sintetizzare una molteplicità di specializzazioni, ognuna delle quali fa parte della pedagogia ma, nel contempo, non coincide con essa; si apre un'altra prospettiva epistemologica, la pedagogia, secondo Visalberghi, è una scienza applicata e il suo spazio d'intervento è rappresentato proprio dall'unità funzionale; solo lavorando in funzione di uno specifico obiettivo concretamente espresso nella prassi educativa sarà possibile, dice Orefice nel 1991, fare emergere il filo rosso, il senso di unità progettuale propria della pedagogia (Orefice, 1991). Cambi, nel 2000, parlerà di funzione trasversale della pedagogia che procede attraverso i saperi, le categorie, i modelli per intenzionare criticamente l'azione educativa (Cambi, 2000).
Da questa diversa prospettiva epistemologica, dall'esplosione tecnologica e dalle mutate condizioni della ricerca biologica che a partire dalla scoperta del DNA si apre ad orizzonti assolutamente nuovi, comincia a delinearsi la possibilità dell'individuazione di un'area di più chiara alleanza fra la pedagogia e le neuroscienze. Quest'area prevede un comune campo d'indagine in cui la ricerca, non più latamente biologica, ma focalizzatasi, oramai, in quella neuroscientifica, diviene guida all'interpretazione dei processi di crescita, di apprendimento e di comportamento e quindi imprescindibile supporto per la costruzione degli interventi educativi.
In teoria, tuttavia, il passaggio dalla biopedagogia alle scienze bioeducative si raggiunge col maturare di alcuni concetti chiave: innanzitutto la conquistata consapevolezza che non c'è più il rischio di una interpretazione riduzionista perché ha preso forza l'ipotesi che i vincoli biologici legittimano la componente culturale e la riconoscono come imprescindibile partner nello sviluppo. In secondo luogo perché l'interesse verso la comprensione globale del sistema uomo e verso le problematiche formative che ne regolano la crescita ha naturalmente portato all'avvicinamento di queste due aree per lungo tempo considerate irriducibili.
Si identifica, così, un ambito di ricerca nuovo che reinterpreta, attraverso la pluralità dei significati che investono la modificabilità biologica e la variabilità ambientale, le potenzialità individuali ad apprendere, i vincoli contestuali e, soprattutto, le relazioni di interdipendenza che continuamente si intrecciano nei processi di costruzione della conoscenza. Di conseguenza si individuano nuovi percorsi indagativi in grado di avvicinare due mondi tradizionalmente considerati distinti; cosicché il lavoro di ricerca in ciascuno dei due versanti prova a mettere insieme, attraverso una visione epistemologica complessa, sistemica ed interattiva, disposizioni interpretative che integrino prospettive diverse nell'approccio a nuclei tematici in qualche modo condivisibili. Tra questi, il ruolo che i vincoli biologici giocano nello sviluppo delle basi neurali dell'apprendimento e nella selezione delle strategie adattive e l'influenza che la componente ambientale ed esperienziale attiva nell'epigenesi.
Punto fondamentale di riferimento e imprescindibile base di partenza per questo ambito di ricerca è senza dubbio l'aver stabilito che l'evoluzione culturale si innesta nell'evoluzione genetica proporzionalmente allo sviluppo della plasticità cerebrale: la condizione dalla quale dipendono i processi di apprendimento e di sviluppo è, dunque, il potenziamento encefalico che ha costituito la chance evolutiva della specie umana. Di conseguenza, lo strumento essenziale alla crescita e allo sviluppo della specie viene riconosciuto nella potenzialità cerebrale della plasticità apprenditiva, per cui, sia che essa venga interpretata come soggetto simulatore (Monod, 1970) o come intelligenza creativa (Dewey, 1946) o come sviluppo di competenze in un processo di catalisi crociata (Morin, 1974) o come peculiare e favolosa abilità organizzativa ed interpretativa (Popper-Eccles, 1981), resta sempre fondamentale l'assunto che tali potenzialità sono impensabili al di fuori della natura e della storia e quindi sempre strettamente legate alla trasmissione e alla comunicazione e, in ultima analisi, ai processi educativi.
2. l ruolo delle neuroscienze
Quella che si configura come caratteristica evolutiva in costante relazione con i processi di mutazione genetica attraverso i quali le informazioni ambientali vengono trascritte e ritrascritte nei lenti processi di composizione dei quadri della conoscenza, corrisponde all'organizzarsi e riorganizzarsi della rete cerebrale nello sviluppo individuale, ed è in questo sviluppo, attraverso l'incidenza della modulazione ambientale, che prende spazio la significatività del pedagogico che si intreccia col biologico; infatti, la capacità individuale di immagazzinare stimolazioni selettivamente organizzate è, a sua volta, connessa alla capacità biologica di discriminarle e codificarle. Nello studio dei processi di apprendimento è dunque fondamentale conoscere le caratteristiche della componente biologica e dal momento che il sistema cerebrale è la conditio sine qua non di ogni forma di comportamento, risulta prioritario conoscere le basi morfologiche e funzionali della plasticità che è proprietà basilare del cervello garante di tutte le possibili modifiche comportamentali.
Ne La mente nuova dell'imperatore Roger Penrose avverte che sarebbe illegittimo considerare il cervello come una collezione fissa di neuroni collegati in un complesso schema. Le interconnessioni fra i neuroni, infatti, non sono fisse ma cambiano costantemente, non nel senso che cambiano le posizioni dei dendriti o dei neuroni ma nel senso che se è vero che la loro cablatura è definita sin dalla nascita è pur vero che le giunzioni sinaptiche in cui ha luogo la comunicazione fra i vari neuroni spesso avvengono in corrispondenza di spine dendritiche e sono proprio queste spine dendritiche che possono contrarsi interrompendo il contatto oppure possono produrne di nuove ristabilendo un nuovo contatto. «La plasticità cerebrale ci conduce a una nuova visione del cervello, che non può essere visto come un organo cristallizzato, determinato e determinante una volta per tutte. Non può più essere considerato come un'organizzazione definita e immutabile di reti di neuroni, in cui le connessioni si stabiliscono in maniera definitiva alla fine dello sviluppo del periodo precoce, determinando una sorta di rigidità nell'elaborazione delle informazioni. La plasticità dimostra che la rete neurale resta costantemente aperta al cambiamento, al contingente, modulabile ad opera degli eventi e delle potenzialità dell'esperienza, che possono sempre modificare lo stato» (Ansermet e Magistretti, 2008, p.17). La plasticità del cervello, quindi, è il carattere essenziale della sua attività.
A questo proposito la ricerca neurofisiologica è necessaria per aiutarci a capire ed interpretare i cambiamenti che avvengono nel sistema nervoso sia per l'evoluzione naturale dell'encefalo sia perché conseguenti all'invio ad esso di opportuni stimoli. Usufruendo di questa chiave è possibile utilizzare nella ricerca educativa le modifiche, considerate di base e proprie del sistema nervoso. Primo fra tutte il potenziamento del sistema sinaptico (variazioni dei pesi delle sinapsi): è evidente che organizzandosi le sinapsi su input (esterni o interni che siano) il potenziamento del sistema è strettamente legato all'ambiente in cui è il soggetto che cresce. Altro elemento pedagogicamente significativo è l'incremento delle arborescenze dendritiche e assoniche: la neurofisiologia, infatti, riconosce con tale fenomeno la garanzia di modificabilità del sistema durante i processi di apprendimento.
La formazione di pool di neuroni che collaborano fra di loro e hanno il comportamento di un'unica unità funzionale rende possibile anche la tesi, oggi accettata da alcuni neurofisiologi, che sia verosimile la formazione di nuovi neuroni (se questa ipotesi venisse confermata potrebbe incidere notevolmente sulle processualità formative).
Tutte queste modifiche, rese possibili solo in una costante dinamica con l'ambiente, possono variare e cambiare i processi di apprendimento e di comportamento. Si legittima, quindi, la fiducia nell'intervento educativo che può mirare all'innesco di nuovi comportamenti o alla modifica di quelli esistenti nella direzione dell'intenzionalità educativa. Quanto fin qui esposto dimostra chiaramente che è possibile esprimersi in termini chiari sul ruolo che la competenza genetica assume nella strutturazione delle modalità apprenditive; appare abbastanza certo, infatti, che l'ontogenesi del cervello è caratterizzata nell'uomo da una grandissima autonomia nei periodi embrionali e fetali per la prevalenza dei fattori genetici, mentre dopo la nascita, nel momento in cui si forma la maggior parte delle sinapsi la dipendenza dall'ambiente prende progressivamente un posto sempre più incisivo nella formazione di strutture che definiscono il comportamento dell'uomo. Dunque, l'attività conoscitiva dell'uomo non è determinata dal solo patrimonio genetico ma riflette l'organizzazione funzionale di strutture espresse dall'interazione genotipo-fenotipo, cioè dalla condizione di apertura all'esterno: in particolare risulta incisiva l'azione di quegli influssi noti come "potenziali d'azione" che viene prodotta dalle situazioni esperienziali e che, passando attraverso i circuiti neuronali, è in grado di controllare la distribuzione e l'efficienza delle sinapsi; di conseguenza lo sviluppo di queste ultime non è influenzato solo dall'attività cerebrale ma ritrova una condizione essenziale nei potenziali d'azione.
Il funzionamento del cervello, quindi, si organizza in strategie neuroniche attraverso una struttura reticolare composta da una enorme quantità di connessioni che collegano tra di loro i neuroni; l'apprendimento, che è in grado di modificare ed essere modificato dalla rete neuronica, nasce in un rapporto interattivo tra l'organismo e l'ambiente ed è, dunque, sia nel processo che nel prodotto condizionato tanto da fattori culturali quanto da fattori biologici. Questa relazione reciproca ed interdipendente tra individuo e ambiente mette in gioco raccordi dinamici tra processi esperienziali ed adattivi, raccordi nei quali l'esperienza si configura come il principale strumento adattivo e l'adattamento prevede sia forme di assimilazione e di accomodamento, secondo il modello piagetiano, sia modalità di richiesta all'ambiente originali e correlate alla capacità propria della specie umana di formulare ipotesi. Popper, ad esempio, sostiene che nei processi apprenditivi siano le ipotesi a giocare un ruolo primario ed esalta l'attività organizzativa del soggetto, la sua straordinaria duttilità e una meravigliosa capacità di invenzione che lo rendono idoneo a trarre profitto dalle risorse esistenti attraverso un perfetto sistema di informazione che gli consente la selezione e l'organizzazione della realtà fenomenica utilizzando quella che Popper chiama percezione globale, intesa quest'ultima come interazione e cooperazione dei diversi sensi ma soprattutto come costante processo interpretativo della realtà.
Tuttavia, anche questi processi evidentemente attivissimi e mai solo sensoriali sono resi possibili dalla presenza delle interazioni biochimiche e dei circuiti neuroregolatori che consentono la sinergia che costantemente si crea tra il cervello umano e l'organismo nella sua interezza, sinergia che si esprime nella dinamica adattiva tra l'individuo ed il suo habitat. A questo proposito, Plessner mette in rilievo la plasticità dei confini che scandiscono la relazione dell'uomo con l'ambiente come una linea in continuo spostamento non sempre determinata da azioni finalizzate anzi, queste sono spesso causate da errori rispetto a regole acquisite, ed è proprio qui, nella gestione dell'errore, che emergono l'elasticità e la plasticità della mente umana che costruiscono la dinamica adattiva (Plessner, 2006).
Va in questa direzione l'ipotesi antropogenetica che registra per l'uomo una lunghissima dipendenza del cucciolo dal gruppo di accudimento. Il cucciolo uomo è segnato da una nascita precoce e da un periodo di adattamento e svezzamento particolarmente lento, ed è in questo periodo che si organizzano e si definiscono le reazioni al mondo circostante attraverso l'utilizzo e l'incremento della plasticità. In queste dinamiche, infatti, si utilizzano costantemente circuiti neuronali che vengono addestrati, attivando nei loro confronti, in maniera inconsapevole, strategie di manutenzione e costruendo in tal modo un repertorio enorme di memorie e di competenze pronte a riattivarsi. Questo meccanismo di base si identifica in ogni essere umano con la propria peculiarità e particolarità in quanto in questo meccanismo incidono tutte le esperienze precedenti dei singoli soggetti.
Vale qui la pena di chiarire e ripetere che, considerando il sistema nervoso come una grande rete, ricerche recenti dimostrano che questa rete è caratterizzata da un fenomeno di ridondanza al momento in cui il sistema nervoso si forma, e che in seguito, come abbiamo già detto parlando delle spine dendritiche e della manutenzione inconsapevole, alcuni punti di questa rete vengono a stabilizzarsi, altri a perdersi; responsabili di questi diversi processi sono, comunque, gli apprendimenti. Conseguentemente, se queste strategie sono possibili, la rete non può essere prefigurata nei suoi meccanismi di base, al contrario, sono elementi come l'ambiente, l'apprendimento etc. a produrre la stabilità di alcuni nodi e lo sfrondamento di altri. La plasticità, dunque, consiste nella modificabilità della funzione cerebrale, ma l'attività della funzione cerebrale è innescata dalle situazioni esterne al soggetto, di conseguenza la plasticità, pur nel rispetto di un patrimonio genetico è attivata e incrementata da stimolazioni esterne.
A questo punto abbiamo alcune certezze: 1) la plasticità funzionale garantisce la possibilità di modificazioni; 2) gli esseri viventi sono in grado di realizzare in completa autonomia un numero elevatissimo di reazioni biochimiche che scattano però sulla base di stimoli provenienti dall'ambiente; 3) la caratteristica attiva del soggetto garantisce la possibilità di processi educativi concreti; 4) l'attenzione all'ambiente circostante rappresenta un elemento pedagogicamente imprescindibile.
Possiamo, dunque, dedurne che corrette stimolazioni ambientali possono influire sui processi di crescita e in tal modo il rapporto plasticità funzionale- sviluppo-finalità educative segna uno stretto anello di congiunzione tra la riflessione pedagogica e lo studio delle neuroscienze. Infatti, più ci si inoltra nello studio delle neuroscienze, più si rafforza la convinzione che è proprio la componente biologica a richiedere e legittimare l'azione del condizionamento culturale. Così, ad esempio, le informazioni (ovviamente provenienti dall'ambiente) si organizzano in maniera selettiva e rappresentano un codice strutturale che ha origine dalle sensazioni e concorre alla formazione delle funzioni cognitive superiori; si tratta di codici che dipendono dal patrimonio genetico ma prendono forma nell'epigenesi.
Tale formazione ha luogo quando sono presenti la struttura biologica e l'ambiente stimolatore (condizione necessaria dell'esperienza) ed è vincolata a tre fattori fondamentali: 1) la connessione genetica di base; 2) la struttura dell'ambiente con cui il cervello interagisce; 3) lo stato in cui il cervello si viene a trovare mentre interagisce con l'ambiente.
Questo complesso processo, ad un tempo condizione e prodotto dell'attività del soggetto, struttura sin dall'inizio le informazioni che provengono dall'ambiente in codici e sottocodici. Si tratta di un sistema di segni che costituiscono lo schema organizzatore dell'esperienza, elaboratore e ordinatore di dati secondo specifici moduli di composizione e costituisce il dispositivo in base al quale possono strutturarsi le conoscenze in modo specifico e significativo; a fondamento del sistema è il "repertorio", elemento fondamentale composto da una lista di simboli con determinati significati ed un codice culturale comune che testimonia un processo di calibratura che si innesta sin dalla nascita e prosegue con diverse intensità lungo l'arco della crescita, organizzando questi simboli in un sistema combinatorio di differenze e opposizioni.
La selezione e la scelta dal repertorio per strutturare i sottocodici avviene, dunque, in un processo sinaptico soggettivo che scaturisce a partire dalla struttura apprenditiva di base e dall'intera storia del soggetto originata dal costante contatto con la variabilità ambientale. La costruzione dei codici e dei sottocodici, di conseguenza, è effetto e condizione dei processi apprenditivi, cioè di quei processi che selezionano, strutturano, elaborano e utilizzano le informazioni definendo così l'architettura della mente ma che, nello stesso tempo, sono da queste operazioni definiti si tratta, allora, di una catena processuale in cui miriadi di stimolazioni vengono gestite attraverso strutture neuronali codificate, ad un tempo effetto di gestioni precedenti e causa di gestioni future. Si tratta, in definitiva, di una realtà estremamente complessa ed articolata in cui il soggetto attiva il proprio processo apprenditivo inserendo le informazioni che lo raggiungono in circuiti sempre più intricati anche attraverso un processo che consente di trasferire "capacità" da esperienze precedenti ad esperienze successive.
Si individua così, nell'attività del soggetto intesa come caratteristica biologica propria della specie umana, stimolata e potenziata dagli stimoli ambientali, la causa prima dello sviluppo e della crescita dell'uomo, avallando con tale tesi l'ipotesi che corrette stimolazioni delle potenzialità apprenditive, intese come capacità organizzative, critiche e creative costituiscono le carte d'oro dei processi educativi. In queste dinamiche emerge la significatività del processo esperienziale ed è qui, in questa strategia di raccordo, esperienziale appunto, che si esprime tutta la rilevanza del pedagogico.
3. Esperienza e ambiente nella riflessione biopedagogica
Le dinamiche apprenditive ricondotte alla formula composita di potenzialità genetiche e di stimolazioni ambientali possono concretizzarsi solo se riportate alla "proprietà" attiva propria degli esseri umani che costantemente la esprimono pur se limitati in precise situazioni spazio-temporali e rendono in tal modo possibili le modifiche dell'apprendimento e del comportamento. È in questa dinamica che si elabora il concetto di "pattern di cambiamento": i pattern emergono dall'interazione fra l'individuo ed il suo ambiente e in quanto adattivi sono soggetti a cicli di crescita che vedono il sovrapporsi, l'integrarsi e il maturarsi di sempre nuovi e più complessi livelli elaborativi. I pattern si attivano in modo selettivo e, anche in questo caso, alcuni di essi che il sistema adattivo considera migliori, più utili in base alle esperienze fatte, vengono sostenuti piuttosto che altri. Di conseguenza l'apprendimento assume significato e senso se viene coniugato al cambiamento e se testimonia un processo di mutamento e di sviluppo. L'esperienza rappresenta, in tal senso, la palestra di quell'attività specificamente umana che consiste nell'apprendere esercitando selezioni ed effettuando scelte attraverso l'innesco dell'intero sistema senso motorio e cognitivo. Sarebbe qui il caso di ricordare le recenti ricerche sui neuroni specchio che allargano il concetto di esperienza suggerendo l'idea che anche la comprensione di un'azione solo osservata richiede la capacità di collegare le informazioni percettive sull'azione osservata alla propria capacità di compiere la stessa azione, strategia che può avvenire solo esperendo l'altro, cioè relazionandoci a lui in modo da investire direttamente dal di dentro, attraverso la nostra fisiologia neurale, l'organismo tutto intero. Anche in questo caso, quindi, l'esperienza produce apprendimento quando genera consapevolezza e gestione del cambiamento.
Particolare riflessione deve essere posta al fatto che in tutti questi passaggi viene necessariamente stimolata la libertà di scelta che rappresenta, appunto, l'abilità di differenziare e autoorientarsi, abilità che identifica e qualifica la dimensione individuale, concretizzando per ogni soggetto nella messa in atto di una "libertà di scelta" anche la individuazione di una "libertà possibile". Il transito dalla "libertà di scelta" alla "libertà possibile" può, a sua volta, generare nuove chances formative e quindi contribuire a delineare, attraverso una catena esperienziale (appunto), percorsi di crescita.
Dewey considera fondamentale il ruolo dell'esperienza individuale e in modo particolare dell'esperienza passata: le idee che abbiamo in mente e la loro elaborazione dipendono strettamente dalle esperienze già avute dall'individuo e le stesse modalità del processo riflessivo dipendono dagli "abiti di pensiero" che ogni singolo individuo ha maturati proprio tramite l'esperienza passata. Acquista quindi un ruolo fondamentale il contesto e in particolar modo quello culturale.
In campo biologico l'adattamento viene definito come il passaggio da una condizione di squilibrio nel rapporto uomo-ambiente ad una condizione di equilibrio. In Dewey si assiste ad una trasposizione del concetto di adatta mento da un piano strettamente biologico ad un ambito sociale e culturale che tiene conto del meccanismo dell'acquisizione e della trasmissione della conoscenza; si tratta di una vera e proprio strumentazione, a livello culturale avanzato, dei processi di adattamento ormai "socializzati" dall'umanità. Dewey sostiene il principio di continuità dell'esperienza, principio che poggia sull'abitudine intesa in senso biologico ma che intrecciandosi con il principio di interazione si sposta verso l'ambito socioculturale; in definitiva l'esperienza non può compiersi solo all'interno della persona, una esperienza autentica deve cambiare in qualche modo le condizioni oggettive in cui si compie l'esperienza stessa; ogni esperienza, infatti, riceve qualcosa dalle esperienze precedenti e modifica in qualche modo quelle che seguiranno.
Dewey sostiene che ogni esperienza è composta da due elementi: le condizioni oggettive e le condizioni interne; qualsiasi esperienza è il prodotto di una dinamica reciproca fra le due condizioni; quando esse interagiscono costituiscono la situazione. La situazione e l'interazione non sono concepibili l'una senza l'altra, l'esperienza è tale quando avviene in virtù di una transazione fra l'individuo ed il suo ambiente. Il principio di continuità ed il principio di interazione non sono separabili, essi rappresentano gli oggetti longitudinali e trasversali dell'esperienza stessa. Situazioni sempre differenti si succedono, ma in virtù del principio di continuità qualcosa passa dall'esperienza che precede a quella che segue. In tal modo la misura del significato e del valore educativo dell'esperienza viene rappresentata dalla continuità e dall'interazione nella loro dinamica reciprocità. Nessuno, più di Dewey, illustra con chiarezza il significato di "esperienza" ed il suo senso educativo: nella riflessione deweyana l'esperienza può essere interpretata sia riferendola al comportamento empirico che a quello sperimentale: l'esperienza quindi non può essere rigida e chiusa ma è vitale e crescente; è l'elemento fondamentale del circolo natura-esperienza- natura e di conseguenza il compito dell'educazione può essere interpretato come un processo che emancipa ed arricchisce l'esperienza.
In questa direzione va anche l'ipotesi chiave di Morin: l'enorme accrescimento di complessità che si opera nel cervello di sapiens, cioè il passaggio dall'ominidizzazione all'umanità corrisponde al salto qualitativo dell'ipercomplessità; il filo rosso dell'ominidizzazione aumenta le sue capacità organizzative e in modo particolare la sua attitudine al cambiamento.
Sulla base di queste ipotesi la riflessione pedagogica viene spinta in una duplice direzione. Da un lato un rigoroso approfondimento dei livelli di gestione della conoscenza; "apprendere l'apprendimento", "conoscere la propria conoscenza", e quindi attivare un dispositivo cognitivo che consenta processi di metacognizione e di metariflessione, dall'altro la consapevolezza dell'importanza della predisposizione di ambienti specifici, complessi e multi-composti, in grado di stimolare negli individui la strutturazione e la formazione di modelli di interazione utili alla formazione dei pattern di cambiamento attraverso l'uso di strategie adattive. Sia nel primo che nel secondo caso si tratta di prospettive sinergiche che interpretano le modalità della costruzione della conoscenza spaziotemporalmente definita. Va infatti considerato il carattere di reciproca interdipendenza e nello stesso tempo di autonomia che regola l'interazione del singolo con l'ambiente che lo circonda e che ci riporta alla problematica esperienza-adattamento.
Mettendo a fuoco il rapporto esperienza-adattamento nell'ambito delle scienze bio-educative emergono i collegamenti tra l'evoluzione genetica e le dinamiche dello sviluppo culturale in rapporto all'evolversi dei sistemi cognitivi e alla formazione delle strutture della conoscenza; all'evoluzione biologica si sovrappone l'evoluzione culturale: la prima, più lenta, seleziona le strutture genetiche mediante la riproduzione differenziale; l'altra, resa rapida dalla trasmissione di conoscenze acquisite attraverso l'esperienza, è soprattutto individuabile, come abbiamo visto, nelle relazioni attive che sussistono fra un essere umano e il suo ambiente naturale ed in tal senso l'esperienza si arricchisce di un carattere specificamente problematico nel cui ambito si definisce la funzione euristica del pensiero che si sviluppa in situazioni variabili, problematiche, incerte. In tal modo l'evento esperienziale inteso come potenziale d'azione si svolge nella persona ed è in grado di influenzare il processo formativo del soggetto tenendo presente che ogni esperienza autentica ha situazioni esterne in grado di cambiare e modificare le condizioni dell'esperienza stessa. L'esperienza è, dunque, ad un tempo una condizione per l'attivazione della processualità cognitiva e formativa ma anche una specifica dimensione di questo processo che si concretizza fondamentalmente attraverso dinamiche adattive.
Una attuale visione dell'adattamento presuppone che il mondo ponga problemi che gli organismi devono risolvere ed ipotizza che l'evoluzione mediante selezione naturale è il meccanismo che crea queste soluzioni. Il concetto di adattamento implica, dunque, un mondo preesistente che pone problemi la cui soluzione consiste nell'adattarvisi; ma implica anche, come abbiamo visto da tutto quanto detto, che gli organismi non sperimentano gli ambienti passivamente, sebbene creino e definiscano l'ambiente in cui vivono. Se è vero, dunque, che la fonte delle differenze va rintracciata nella informazione genetica contenuta nel DNA ciò non significa, certamente, che la formazione di un individuo sia interamente ricavabile dall'informazione genetica. Il concetto di formazione si lega infatti, immediatamente a quello di differenziazione; ma la differenziazione ha la sua origine nel processo adattivo ed il processo adattivo presuppone l'esterno dunque, il processo di formazione è dentro il processo di adattamento; siamo in piena tematica pedagogica e, di nuovo, la conoscenza delle ricerche neuroscientifiche diviene un giunto cardanico per innestare un processo educativo mirante all'equilibrio e all'autonoma capacità di progettazione del "sé".
The author gives a brief background on the relationship between education and biology. It identifies, well, a new area of research that reinterprets, in the plurality of meanings that affect modifiability biological and environmental variability, the potential for individual learning. Dewey considers crucial the role of individual and especially of past experience: the ideas we have in mind and processed depends largely on the experience already had in the same manner by the individual and the reflective process depend on the "dress of thought "that every individual has accrued through their own past experience. The author focuses on the reflection of his own encounter between biological and social aspects in the learning process.
1 Per approfondimenti bibliografici sulle Scienze bioeducative si rimanda agli scritti dell'autrice.
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Eliana Frauenfelder
Ordinario di pedagogia generale e sociale, Università di Napoli "Federico II"
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Copyright Firenze University Press 2011
Abstract
The author gives a brief background on the relationship between education and biology. It identifies, well, a new area of research that reinterprets, in the plurality of meanings that affect modifiability biological and environmental variability, the potential for individual learning. Dewey considers crucial the role of individual and especially of past experience: the ideas we have in mind and processed depends largely on the experience already had in the same manner by the individual and the reflective process depend on the "dress of thought "that every individual has accrued through their own past experience. The author focuses on the reflection of his own encounter between biological and social aspects in the learning process. [PUBLICATION ABSTRACT]
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