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The Bill of Rights [1689], Macerata, Liberilibri, 2010, pp. XLvm-25.
H segreto della libertà inglese consiste nella capacità di innovare senza spezzare il filo della continuità, modificando la tradizione dall'interno, nel pieno rispetto delle forme e degli usi tramandati. Un simile atteggiamento, nel quale il vecchio e il nuovo coesistono in una osmosi addolcita da un consumato understatement istituzionale, risalta a pieno in uno storico documento come il Bill of Rights, adesso riproposto al pubblico italiano in una ben curata edizione che, oltre alla traduzione, presenta anche il testo inglese. Com'è noto il Bill of Rights chiude la gloriosa rivoluzione inaugurando non solo una nuova stagione politica, ma mettendo in moto un processo evolutivo che, nell'arco di circa due secoli, porterà alla nascita del moderno parlamentarismo e del governo di gabinetto. La "gloriosa" non provocò spargimenti di sangue in Inghilterra (diversa fu la situazione in Scozia e ancor più in Irlanda), tuttavia non si trattò di una vicenda lineare, bensì dell'esito finale di un complesso gioco di forze, che vide convergere su di un obiettivo comune interessi e opinioni contrastanti. H Bill of Rights è il precipitato ufficiale di questo processo storico, circostanza che si rispecchia anche nella sua struttura.
H documento ha un triplice obiettivo: limitare le prerogative del sovrano, rafforzare la funzione del parlamento, garantire in modo efficace le libertà individuali. Nel testo, però, non troviamo una formulazione solenne di principi, bensì la sobria riaffermazione di diritti negati. Il bill, infatti, si apre con la denuncia delle violazioni delle leggi del regno operate da Giacomo. Solo nella parte successiva, volta a riaffermare le tradizionali libertà britanniche, vengono elencati un insieme di diritti, del parlamento e dei sudditi. In sostanza è in modo indiretto e mediato che il nuovo si afferma. Un'apparente ipocrisia che risulta pagante perché consente di diluire il conflitto, smussandone le asperità entro una rassicurante cornice consuetudinaria.
H significato politico e costituzionale del Bill of Rights sfuggirebbe se non si considerasse la sua origine. Esso nasce come una Declaration of Rights, preparata dal parlamento-convenzione, un'assemblea non convocata dal sovrano, riunito per fronteggiare la diffìcile situazione creatasi dopo la fuga di Giacomo e lo sbarco nell'isola di Guglielmo d'Orange, marito di Maria Stuart e statoldo di Olanda. Approvata il 12 febbraio 1689, la Declaration viene letta in parlamento da Guglielmo e Maria subito prima dell'atto di offerta della corona. Una procedura, questa, che presenta forti profili contrattuali: Guglielmo diventa re non grazie alla forza delle armi, bensì per volontà del parlamento, che perimetra in modo chiaro l'estensione dei suoi poteri. La funzione politica del documento viene rafforzata e ampliata successivamente quando, nel dicembre del 1689, la Declaration diventa, a seguito di una votazione parlamentare, un testo con valore legale assumendo, appunto, la denominazione di Bill of Rights. Da allora esso è parte integrante del complesso edifìcio costituzionale inglese.
Per aiutare il lettore a decifrare con attenzione il senso del testo torna assai utile il lungo saggio introduttivo di Elizabeth Wicks L'eredità di un governo limitato). L'autrice non si limita a una esegesi tecnica del Bill, ma fornisce molti utili elementi per inquadrare storicamente il documento, tanto nel contesto degli eventi del 1688-89 quanto nel più largo ambito della storia costituzionale inglese.
In particolare, la Wicks fissa una convincente periodizzazione del significato del Bill. Se questo segna una pietra miliare nell'affermazione del parlamentarismo, la studiosa avverte opportunamente che occorre evitare anacronismi, facendone un primo passo verso l'affermazione dell'onnipotenza del parlamento. Tale dottrina appartiene, infatti, a una successiva stagione della vita politica inglese. Al contrario, il documento votato nel 1689 era inteso soprattutto allo «smantellamento dell'idea d'illimitatezza dei poteri del re», p. xxvn. In altri termini, l'eredità più duratura del Bill of Rights è quella di aver affermato una sostanziale limitazione dei poteri del sovrano. «L'odierna costituzione britannica, ricorda la Wicks, deve molto all'ordine politico emerso nel 1689 e al suo fermo messaggio per cui un re deve reggere il paese attraverso il suo Parlamento, o non lo reggerà affatto» (p. xlih).
M. Griffo
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