Title: Between Luxury and Crisis. Supply Chains, Back-Reshoring and Work Conditions in the Tuscan Fashion Industry
Abstract: Interest in back-reshoring strategies has gained momentum recently. However, this phenomenon little is known so far about wage and working conditions. This article focuses on plants in Tuscany of luxury global firms that reverse previous off-shoring by bringing manufacturing back home. Drawing on interviews with workers and privileged informants, the article outlines the deterioration of working conditions through the subcontracting relationships of value chain. The main thesis of this paper is that in order to understand the on-going changes there is a need to shows the structural role of interlacement of capital, intangible assets and labour.
Keywords: Supply chains, Back-reshoring, Global firms, Work conditions, Workforce composition.
Introduzione
Questo saggio prende le mosse dai materiali di una ricerca svolta nell'ambito del progetto europeo Mobilising Europe for a living wage for garment workers promosso dalla Clean Clothes Campaign (2014). L'indagine, focalizzata sulle condizioni di lavoro nella produzione di abbigliamento e calzature in 17 Paesi, in Italia si è sviluppata prendendo in esame tre aree dove questi comparti sono particolarmente rilevanti per numero di aziende e di addetti: quella della Riviera del Brenta, della provincia di Napoli e di Firenze1. L'analisi incrociata di questi contesti, pur connotati da sistemi produttivi (tipologia di prodotti, livelli qualitativi, produzione sommersa) e da un mercato del lavoro molto differenti (maggiore o minore presenza di manodopera straniera e di donne; diversa incidenza di lavoro irregolare), ha permesso di evidenziare alcune tendenze comuni che, sulla scia di una ristrutturazione industriale di lungo corso, sembrano aver acquistato con la crisi degli ultimi anni una notevole accelerazione. Si tratta della sempre maggiore localizzazione di produzioni specializzate, ma soprattutto dell'intensificazione degli investimenti diretti e dei rapporti di subfornitura di alcuni grandi gruppi internazionali e multinazionali del settore moda con le piccole imprese del territorio. Tali attività, che hanno assegnato ai distretti italiani un ruolo di primo piano nella produzione globale del lusso, sono state in alcuni casi reinternalizzate dall'estero e oggetto di analisi per lo più concentrate sul lato gestionale e sulle ricadute in termini economici di questo «rimpatrio di posti di lavoro» (Lazzarato 1997: 97). Piuttosto scarsa è stata, almeno finora, l'attenzione alle condizioni dei lavoratori e alle implicazioni di tale processo sulla logica della produzione a rete globale.
In linea con una riflessione sviluppata nel corso degli ultimi anni (Redini 2007; 2008; 2016) è proprio da questo punto di vista che prendo invece in esame i rapporti di subfornitura tra alcune piccole aziende in provincia di Firenze2 e le griffes del settore moda, focalizzando l'attenzione sul subappalto come strategia che, operando sulla composizione della forza lavoro e sulla sua "visibilità", assume un ruolo fondamentale nei processi di valorizzazione delle merci (Mollona, Papa, Redini, Siniscalchi 2016). I materiali etnografici qui richiamati testimoniano infatti come le condizioni salariali e di lavoro dal comparto della pelletteria e dal distretto del lusso ad essa dedicato in provincia di Firenze tendano a degradarsi attraverso la rete dei subfornitori dispersi sul territorio. Se la moltiplicazione dei regimi lavorativi (Bellofiore, Vertova 2009; Mezzadra, Neilson 2013) è tradizionalmente evidente al differenziarsi delle aree di produzione, il ruolo che il distretto ha assunto su scala globale consente di poter osservare questi dislivelli anche entro i confini di uno spazio regionale. Dal punto di vista produttivo esso assume infatti la funzione di "nodo" all'interno di una rete molto ampia (Ohmae 1991) in cui, come altrove, si combinano diversamente specializzazione e standardizzazione delle mansioni e una gerarchia che, allontanandosi dal centro, sembra diventare più incisiva. Per questo motivo in uno scenario in cui sono costantemente richiamati l'omogeneità e le differenze della rete produttiva, cosi come la prossimità e la distanza delle varie fasi, l'analisi si focalizzata invece sui «punti di intersezione» (Sassen 2003: 10) tra gli standard e le pratiche (Tsing 2009: 150) e sulla continua negoziazione tra «aspirazioni locali e cornici discorsive globali» (Ong 2013: 17).
La necessità del lusso
Insieme al lento spostamento dai paesi asiatici a quelli del bacino del Mediterraneo e dell'Europa orientale (near-reshoring), gli studi sullo sviluppo delle catene del valore hanno recentemente rilevato anche quello del rientro in Italia di alcune produzioni delocalizzate all'estero di nuovo internalizzate o esternalizzate in loco (backreshoring) (Fratocchi et alii 2014). Questa ridislocazione della produzione operata da alcune grandi imprese del lusso, pur facendo leva sulla specializzazione e interconnessione geografica delle fasi produttive tipiche del distretto industriale, si inserisce oggi in una strategia produttiva su scala globale. A guidare questi processi sono infatti aziende caratterizzate da «un'elevata apertura internazionale in termini di partecipazione alle catene globali del valore» (global player) (Istat 2013: 97) che presidiano le fasi più strategiche sia a monte della catena del valore, attraverso i rapporti di produzione a livello locale, sia a valle con lo sviluppo delle fasi di progettazione, comunicazione e distribuzione. La posizione di leadership di queste imprese non si definisce infatti in base alla loro dimensione strutturale, ma alle relazioni che sono in grado di attivare sia a livello produttivo, dentro e fuori dal distretto, sia distributivo attraverso la possibilità di gestire direttamente il rapporto con mercato finale. Il sistema produttivo locale, in particolar modo nella sua forma distrettuale (Becattini 1989), è tradizionalmente caratterizzato dal rapporto "squilibrato" tra imprese le subfornitrici e quelle finali in grado di consentire insieme al contenimento dei costi, quell'elevata capacità di adattamento alla variabilità del mercato così importante nel settore della moda (Baracchi et alii 2001; Pyke, Becattini, Sengenberger 1991; Regini, Sabel 1989). Tuttavia, in anni recenti, esso si è particolarmente acuito per l'intervento di importanti gruppi che pur mantenendo all'estero i centri direzionali, hanno insediato laboratori di progettazione e produzione nel comparto della pelletteria e delle calzature di fascia medio-alta, alta e di lusso. È dentro e intorno al comune di Scandicci, epicentro del cosiddetto distretto del lusso in provincia di Firenze (Intesa Sanpaolo 2008), che è possibile vedere come la definizione di queste relazioni sia avvenuta in base alla riconfigurazione delle catene del valore a livello internazionale come racconta il responsabile marketing di un'azienda della zona:
Qui, oltre alle aziende storiche come Gucci, Ferragamo e Prada, devi aggiungere tutti quelli che sono arrivati ora: Céline, Fendi, Bulgari, Dior, Yves Saint Laurent, Balenciaga, Tod's, Dolce e Gabbana. Sono venuti qui [con] una rilocalizzazione della produzione che è uno di quei casi stupefacenti della vita, perché prima subappaltavi la produzione [...] e ti tenevi la "testa" [cioè] il valore immateriale che è il valore di produrre il consumatore: te hai il brand e non vai incontro alle esigenze del mercato, ma le crei attraverso il brand. Ma questa cosa produce che te devi sempre innovare il prodotto così velocemente che tutti i rispar mi di scala che facevi subappaltando all'estero non esistono più. Ora hai paradossalmente bisogno di avere sì una delocalizzazione, ma localizzata perché hai bisogno della prossimità [...] cioè di una filiera molto flessibile, che non ti fai carico dei costi, ma sotto casa! Il prodotto cambia e devi avere gente in grado di risolverti il problema, velocemente e nei tempi. Che vuol dire che se un for nitore non ti risponde, vai da un altro che tanto è lì accanto. Più il prodotto è industriale meno questa cosa è necessaria ar tigianale, ma quando è artigianale è indispensabile (Fabio Manfi3, Responsabile marketing, Firenze, 28 giugno 2013).
Insieme al rovesciamento tra produzione e mercato che caratterizza il capitalismo contemporaneo (Marazzi 1999) viene qui evocata una specifica configurazione spaziale del ciclo produttivo organizzato sulla differente distribuzione internazionale del valore: maggiore in alcuni "centri" dove la produzione si specializza e minore in tutti gli "altrove" dove il lavoro standardizzato viene invece subappaltato. Pur screditata dalla pratica etnografica che può esperire la notevole diversificazione sociale e organizzativa delle produzioni realizzate all'estero (Redini 2007; 2016), questa specifica cartografia va presa in esame per la capacità di legittimare uno spazio geografico e sociale disintegrato (Castells 2002) ovvero una concentrazione del potere senza una sua centralizzazione (Harrison 1999). È infatti necessario non trascurare che l'entrare a far parte di una rete è condizionato da «considerevoli risorse (finanziarie, tecnologiche, quote di mercato) o un'alleanza con un attore principale interno alla rete [stessa]» (Castells 2002: 225).
I rapporti di subfornitura tra le aziende multinazionali della moda e le imprese locali hanno fatto appello alla capacità di queste ultime di assicurare buoni livelli qualitativi e una flessibilità adeguata a tenere il ritmo delle frequenti oscillazioni della domanda. Anche se è stata privilegiata la strategia della subfornitura di specialità per produzioni che per qualità e caratteristiche richiedono una manodopera altamente specializzata (Ricciardi 2003), lo sventagliamento delle relazioni produttive è stato piuttosto ampio. Oltre al ricorso al contoterzismo, con la fornitura di materie prime o i semilavorati sui quali l'impresa esegue le lavorazioni pattuite e, in alcuni casi, a forme di partnership caratterizzate da una maggiore integrazione informativa, non infatti ha perso importanza il più tradizionale modello di subfornitura "a cascata". Questo tipo di rapporto è di cruciale importanza nell'analisi socioantropologica del lavoro industriale perché è in questo frangente che operano specifiche forme di produzione non solo delle merci, ma anche delle soggettività dei lavoratori. Esso si sviluppa nella relazione tra un committente e alcuni fornitori che lavorano per più leader o in regime di mono-committenza, ma che comunque a loro volta riversano la propria richiesta, appunto "a cascata", su fornitori di seconda o terza fascia. È attraverso questo meccanismo che il lavoro tanto all'estero quanto in Italia può essere occultato dal momento che, come testimonia un rappresentante sindacale:
Anche in Toscana il subappalto ha prodotto dei livelli di grigio e di nero molto forti perché quando te fai un prodotto con un subappalto, qual è la cosa normale? Che io committente faccio la modelleria di un prodotto, poi vado da un mio cliente e gli dico di farmelo in tot pezzi a un tot prezzo, poi come lo fa sono fatti suoi. Questo qui prende il lavoro e lo subappalta ulteriormente e così via e questa cosa produce catene di subappalto non tracciate. Essendo tutto oscuro, il margine dato al primo subappaltatore può essere molto risicato perché questo può recuperarlo con ulteriori limiti di subappalto. Quello che è il potere contrattuale della griffe sul subappaltatore può essere scaricato su qualcun altro che poi alla fine ne fa le spese e la cui alternativa è andare in Moldova. Questa è la regola e questo ha prodotto nel nostro distretto una situazione di grigio con aziende cinesi, sottoscala senza aspiratori... cioè da noi la catena del subappalto può arrivare fino alla famiglia che a casa appiccica l'etichetta (Mauro Bernardi, Rappresentante sindacale, Firenze 17 giugno 2013).
A livello generale la possibilità di "ingrigirsi" di questo modello sollecita a ripensare la tradizionale differenza tra le reti di subfornitura verticali, che connettono una grande impresa coi propri produttori e distributori sparsi nel mondo, da quelle orizzontali, tipiche dei distretti industriali, in cui i rapporti tra subfornitori vengono considerati più egualitari (Hudson 2001). Nello specifico contesto preso in esame, essa consente inoltre di comprendere la posizione di molti terzisti, svantaggiati sotto diversi punti di vista: da quello del prezzo delle prestazioni perché collocati in un mercato più sottoposto alla concorrenza, a quello della capacità di apprendimento e di innovazione in quanto più lontani dal committente finale. Non a caso dunque nelle testimonianze degli interlocutori della ricerca emerge spesso il tema dello "squilibrio" nel rapporto con i committenti acuito dagli effetti non solo della più recente recessione economica, ma di una crisi del comparto tessile-abbigliamento-calzature4 che ha determinato fin dagli anni Novanta una profonda riorganizzazione del settore. In Toscana le imprese che, come dice un imprenditore, «hanno resistito adattandosi» alla ristrutturazione (Giorgio Maschi, imprenditore, Arezzo, 15 aprile 2013) sono quindi sì specializzate in particolari nicchie di mercato, ma soprattutto inserite in filiere5 che da specifici territori si estendono sempre più fuori di essi. Un meccanismo che, in Toscana, ha preso forma attraverso «la conversione di artigiani no-brand in contoterzisti dei grandi marchi del segmento lusso, [lungo] una catena produttiva articolata e adatta[ta] alle esigenze delle griffe» (Pieraccini 2012). Per gli osservatori economici questo fenomeno sarebbe dovuto al «gap sul fronte della presenza all'estero» di molte imprese locali pur capaci di realizzare prodotti di qualità (Irpet, Unioncamere Toscana 2012: 67), mentre per gli imprenditori alla sempre maggiore importanza assunta dal "saper vendere" piuttosto che dal "saper fare". Sia gli uni che gli altri chiamano in causa un processo di più ampia portata che nelle analisi sullo sviluppo del capitalismo è stato identificato nel passaggio da un'economia dell'offerta a una della domanda in cui «il consumo [...] diventa il momento intorno al quale si struttura tutto il ciclo della valorizzazione» (Lazzarato 1997: 91). L'impossibilità finanziaria e organizzativa di molte aziende di rivolgersi autonomamente ai mercati esteri viene quindi considerata all'origine di una notevole trasformazione del paesaggio industriale regionale come testimoniato da un rappresentante sindacale:
Chi [tra le piccole aziende] resiste è perché ha trovato il modo di esportare in paesi ricchi cioè, tanto per capirsi, l'aziendina o si mette in filiera col brand o muore perché per chi faceva un prodotto da vendere al mercato, ve beh, lì c'è la concorrenza di altri Paesi per cui non puoi reggere, ma ci sono anche le aziende che fanno un prodotto a marchio loro che non è il brand e anche quelle che non ce la fanno, perché oggi quello spazio di mezzo non esiste più e quindi o te sei in grado di commercializzare andando sui mercati in crescita, oppure sei finito. A Malmantile [un comune in provincia di Firenze] sono quattro gatti e dovunque vai c'è un'azienda di scarpe, lavorano eh, poveracci, si difendono, ora queste griffes gli cominciano a dare lavoro... ma non hai una concentrazione come a Scandicci sì, tu hai tutto questo discorso di conoscenze diffuse blablabla, ma lì di calzaturifici ne hanno chiuso non so quanti! (Mauro Bernardi, Rappresentante sindacale, Firenze, 17 giugno 2013)
Come si evince da questa intervista le relazioni tra imprese leader e subfornitrici così come tra centri decisionali e siti produttivi non si dispiegano in maniera stabile, ma in relazione alle sinergie attivate da specifici mediatori in e a cavallo fra diversi campi dell'azione sociale. Non solo le conoscenze sedimentate in un dato territorio, ma «la trama di contatti, interfacce e mediazioni» (Olivier de Sardan 2008: 167) tra le imprese, le istituzioni, le organizzazioni sindacali, la forza lavoro e le sue forme di riproduzione permette di spiegare infatti la particolarità di un contesto rispetto a un altro e quindi il dispiegamento, costantemente instabile, delle reti produttive a livello globale (Tsing 2009).
La polvere sotto il tappeto
Le dinamiche appena descritte assumono una rilevanza particolare nell'analisi del distretto del lusso in provincia di Firenze che, come si diceva, negli ultimi anni ha avuto un notevole sviluppo economico e mediatico. Connotato da una lunga tradizione artigiana e fin dagli anni Cinquanta da una fitta rete di relazioni distrettuali, quello che è conosciuto anche come Polo fiorentino della pelletteria si presenta oggi come un notevole agglomerato di aziende (circa 2.000) e di addetti (circa 15.000) specializzati nella produzione di articoli in pelletteria6 di fascia medioalta, alta e di lusso (Batazzi, Bortolotti, Simoni 2005). In questo contesto alcuni gruppi industriali detentori di brand sono al vertice di un sistema produttivo molto gerarchico e articolato7, una "filierona" come la definisce una interlocutrice della ricerca, che connette e simultaneamente disperde le attività produttive tra un territorio e l'altro dal momento che:
questo grandissimo polo di produzione del lusso - soprattutto di borse e portafogli - intorno a Firenze, si sta saldando con la filiera della concia che sta a Santa Croce. [Si sta formando] insomma una grande "filierona" in cui si parte dalla concia delle pelli che sono tutte importate, tutte, e si arriva praticamente alle borse e al portafoglio e anche alla scarpa anche se di scarpe qui se ne fanno sempre meno (Piera Silvini, giornalista, Prato, 24 settembre 2013).
Nell'area del distretto le aziende leader hanno quindi esternalizzato le fasi produttive relative alla pelletteria ai subfornitori locali e, in alcuni casi, acquistato direttamente unità produttive esterne. Allo stesso tempo hanno proceduto ad una implementazione delle tipologie di prodotti attraverso una fitta rete di rapporti con fornitori a livello sia nazionale sia internazionale (Irpet 2004). Le griffes della moda praticano infatti quella che gli esperti del settore definiscono brand extension8 ossia una diversificazione dell'offerta che spiega la moltiplicazione delle aree merceologiche e di conseguenza geografiche interessate alla loro azione. Per questo motivo se la pelletteria appare spazialmente localizzata, la filiera delle calzature è invece dispersa in un'area più ampia della regione, mentre quella dell'abbigliamento per lo più estesa al di fuori di essa come racconta un rappresentante sindacale:
L'abbigliamento in questo territorio [la Toscana] lo vedi male perché qui hai solo fasi di lavorazione, le griffes si rivolgono ai distretti specializzati fuori regione come quello di Novara. Qui c'è qualcosa, sì Emilio Pucci fa i foulards, ma insomma la filiera dell'abbigliamento a par te casi rarissimi, non c'è. La pelletteria invece ha una filiera qui, compatta, perché ha una maggiore possibilità di contenimento dei rapporti di subappalto mentre le scarpe essendo un prodotto che si compone di più pezzi, giustifica più passaggi perché ti specializzi su una par te e quindi è chiaro che ha una filiera più ramificata anche in altre regioni.
Cos'è rimasto in Toscana della calzatura?
Il Valdarno, legato abbastanza a Prada e ora anche a Gucci, una parte del pistoiese che fa ancora scarpe, nella provincia di Firenze Malmantile e l'empolese e poi c'è delle cose sparse. Non è scomparsa ma è geograficamente meno compatta.
La filiera di Gucci in Toscana fa solo pelletteria?
No, fa anche scarpe ma non nella stessa filiera in cui fa la pelletteria. Fa le calzature attraverso controllate dirette, una in Valdarno e una a Monsummano Terme e anche ovviamente delle aziende di filiera che lavorano per lei a Malmantile... però la filiera è diversa, non ha due livelli di fornitura, non ci si fa a fare quell'operazione di compattezza che è stata fatta sulla pelletteria e non ha quella compattezza geografica perché poi va sempre anche nelle Marche, Veneto...
Quello che sembra emergere da questa intervista è come, all'ombra della specializzazione e concentrazione di attività nel distretto della pelletteria di lusso, si ramifichino e disperdano sul territorio regionale e al di fuori di esso un numero altrettanto rilevante di produzioni. L'importanza politico-economica di un dato territorio deve perciò essere presa in esame alla luce dell'"instabilità cronica" della geografia dell'accumulazione (Harvey 1985) che sollecita a mettere a fuoco ciò che avviene a livello locale rispetto a ciò che si sviluppa altrove come suggerisce un imprenditore:
Molte cose che alcuni facevano fuori [all'estero], Prada eccetera, tendenzialmente le riportano. Non tutte eh, quelle più artigianali. Intanto perché la Cina si è alzata a livelli di prezzi quindi quei differenziali non ce li hai più [...]. Poi ce ne sono tanti che si spostano in Moldova e in Ucraina perché quell'altre [Ungheria, Romania] sono entrate in Europa, invece la Moldova ha il vantaggio rispetto alla Cina di essere più vicina e probabilmente costa uguale. Quindi che cazzo ci vai più a fare in Cina? Intanto il made in China se ti beccano... due palle! Quindi intanto è made in Europa ... hai una sor ta di riavvicinamento e in alcuni casi di re-inter nalizzazione perché, ripeto, [i committenti] sono molto attenti, perché non ha molto senso che un prodotto che te rivendi a 300 volte il suo valore, rischiare che il marchio si sputtani" (Giorgio Maschi, imprenditore, Arezzo, 15 aprile 2013).
Come nelle analisi degli economisti che hanno indagato il fenomeno del back-reshoring, anche in questa testimonianza viene messo in evidenza il fatto che il rientro in Italia abbia riguardato le linee di alta gamma, mentre quelle standardizzate sarebbero rimaste all'estero (Garavaglia 2014). Le richieste del mercato del lusso insisterebbero infatti su un «made in Italy reale» per il quale «i super-ricchi cinesi sono disposti a spendere fino al 50% in più e [per questo] richiedono ai brand una certificazione volontaria in aggiunta all'etichetta, che purtroppo spesso nasconde dei 'trucchi'» (ibid.: 50). A fronte di una esperienza etnografica focalizzata sui livelli politico, sociale e simbolico attraverso cui il prodotto acquista un valore "reale" e monetizzabile (Redini 2008) questo "dato" può essere più attentamente indagato. Nella ricerca d'équipe sulla filiera del lusso (Sacchetto, Bubbico, Redini 2014) il fatto che «i cinesi sono disponibili ad acquistare prodotti di lusso a prezzi elevati, ma non quando essi sono prodotti nel loro Paese a bassi salari» ha rappresentato uno spunto per orientare lo sguardo etnografico dal momento che le aziende collegate a un brand che hanno dichiarato di produrre in Cina sono parse penalizzate da tale scelta (Sacchetto 2014: 11). Nell'analisi di questi processi questo elemento ha permesso cioè di mettere a fuoco l'importanza tanto delle strategie di branding e di relazione coi clienti, quanto della gerarchia che attraversa le relazioni distributive attraverso il controllo sulla circolazione. Un imprenditore contoterzista nel settore della pelletteria racconta infatti:
Quando non c'è il controllo della filiera, c'è una parte di produzione che esce dal canale, tuo, di distribuzione e entra in quello parallelo del falso [...] ora, ci sono delle realtà [aziende committenti] che spesso pagano il fornitore con la possibilità di fare... insomma dicendogli "io ti lascio la pelle, te sai fare le cose, fai un po' come ti pare!".
Cioè? Pagandoli di meno?
Non pagandoli affatto! Dicono "Ti lascio gli avanzi e fai come ti pare". Questo fa sì che, col brand, questi vanno a presidiare più mercati perché hanno l'alto ma anche il basso, fanno due linee con questo meccanismo, capisci?" (Ermanno Taviani, Pistoia, 14 marzo 2013).
L'enfasi sui valori dei marchi riflette l'importanza assunta dalla circolazione nel quadro di una riorganizzazione della produzione che grazie all'intervento delle tecnologie informatiche ha reso possibile la separazione e allo stesso tempo la connessione tra le varie fasi produttive e un centro operativo. È attraverso questa distanza che il lavoro, disperdendosi nei rivoli del subappalto della produzione, ha potuto essere occultato tanto all'estero attraverso i meccanismi della delocalizzazione (Redini 2016), quanto in Italia. Per ricostruire questi passaggi è stato quindi indispensabile orientare la pratica etnografica verso i «punti di intersezione» (Sassen 2003) in cui si definiscono in maniera situata le connessioni tra diritti del mercato, cittadinanza e controllo del lavoro. Come è stato notato infatti, l'organizzazione transnazionale della produzione frammentando e disperdendo le prestazioni si è simultaneamente localizzata attraverso tecniche di zoning che governano gruppi di persone e flussi di capitale (Ong 2013). È alla luce di questi contributi che è possibile comprendere la "rimozione" della presenza dell'imprenditoria di origine cinese nella catena di subfornitura del lusso come emerge dalle parole di una interlocutrice della ricerca:
A volte il lusso e il cinese si toccano perché ci sono dei cinesi che lavorano per Ferragamo, per Chanel, per Cartier come produttori della filiera della pelletteria a Firenze. Questo avviene soprattutto nella filiera della pelletteria, molto meno in quella dell'abbigliamento anche se a Empoli ci sono cinesi che producono per Dolce e Gabbana, Armani, sempre come fornitori di aziende italiane che sono il primo committente eh! [...] Nessuno va a sbandierare questo perché le griffe sono molto gelose della catena di for nitura e di subfornitura e quindi difficilmente ti dicono anche chi sono i loro fornitori e subfornitori (Piera Silvini, giornalista, Prato, 23 settembre 2013).
Le imprese a conduzione cinese di prima e seconda generazione9 nella provincia di Firenze e in particolar modo in quella di Prato sostanziano un panorama numericamente molto consistente e variegato10 in cui l'impegno più eclatante nell'attività conto terzi nel pronto-moda si è accompagnato a quello del programmato11 anche per marchi molto noti.Tuttavia come emerge nell'intervista in riferimento all'italianità del primo committente, questo ruolo è sottoposto a un costante oscuramento non solo nel meccanismo "a cascata" della subfornitura, ma anche attraverso una vera e propria stigmatizzazione. Analogamente a quanto ho analizzato nel contesto delle aziende delocalizzate in Romania dove l'aggettivo romeno viene usato come sinonimo di "brutto" e di "kitsch" (Redini 2008), in Toscana quello cinese veicola l'idea di un lavoro di scarsa qualità realizzato per lo più in condizioni fuori dalle regole. Nel confronto con una rappresentante sindacale, le situazioni di lavoro irregolare, salario fuori busta e impiego in nero di lavoratori in cassa integrazione che caratterizzano non poche aziende toscane, queste dinamiche vengono ricondotte a una "cinesizzazione" dei rapporti di lavoro:
Il lavoro nero è diffuso?
Sì, dapper tutto, anche nelle italiane. Si stanno cinesizzando, i rapporti.
Si stanno...? Cinesizzando?
Eh sì, perché magari succede che in questa fase di crisi, la gente in qualche modo si arrangia, e ci sono lavoratori a cui [le aziende] propongono di lavorare a 2-3 euro l'ora, italiane eh! per dire, nelle roccature, nelle torciture, in aziende ar tigiane! In cui si dice "tanto te sei disoccupato puoi venire a lavorare a 2, 3 euro" cioè quanto pagano i cinesi nella produzione.
Quindi abbassano il costo del lavoro?
Sì, e al nero! Perché magari ci sono lavoratori in cassa integrazione a zero ore che vanno a nero, [le aziende] gli danno... per dire, con la cassa integrazione prendono 4 euro e [i datori di lavoro] gliene danno 3 a nero. Capito? Questo sta succedendo. Non ci viene detto proprio chiaro però si sa (Laura Magni, rappresentante sindacale, Prato, 16 settembre 2013).
Le caratteristiche del lavoro svolto nelle ditte cinesi si sono rivelate una risorsa importante per le imprese italiane che vi hanno fatto ampiamente ricorso scaricando sul loro modello organizzativo parte degli oneri maggiori derivati dalla velocizzazione del ciclo produttivo (Colombi 2002). Ma se l'estrema flessibilità, il salario a cottimo, i buoni livelli qualitativi e la velocità di esecuzione delle aziende cinesi consentono di spiegare come quelle italiane siano riuscite a "resistere" alla crisi degli ultimi anni, ai livelli più bassi della gerarchia della fornitura questi stessi elementi sono considerati all'origine degli effetti dirompenti di una "delocalizzazione domestica" (Ceccagno 2003). Non sorprende quindi che la stigmatizzazione dello straniero venga messa a frutto proprio nei rapporti di subappalto come racconta un altro rappresentante sindacale:
Gli imprenditori cinesi si lamentano perché mi dicono che gli imprenditori italiani dicono [loro] "questa è la tariffa che do" ma poi quando vedono che [i terzisti] sono cinesi aggiungono "no, aspetta, è la metà", capito? Perché già solo vedere che uno è cinese significa poter giocare di più sul prezzo. E loro [i cinesi] si lamentano di questo razzismo intrinseco delle imprese italiane, che sicuramente c'è. Poi capita anche che l'impresa [committente] dice "io non ho problema a mettere l'impresa [cinese] in regola, però non voglio che si sappia che lavoro coi cinesi".
Vuoi dire che non si vuole l'esplicitazione della presenza cinese nella filiera?
Sì, nonostante sia regolare gli imprenditori dicono "io non lo voglio dire! Io li metto in regola i rappor ti [sindacali e lavorativi] però non voglio che si sappia"... e questo ti fa capire quanto si percepisca che il consumatore può essere razzista! (Mauro Bernardi, Firenze, 17 giugno 2013).
Il lusso di un lavoro
Lo sventagliamento di relazioni produttive appena descritte permette di tratteggiare un contesto industriale in cui appare molto marcata la diversificazione sia delle forme organizzative, sia delle diverse figure sociali che gestiscono la produzione. L'ingresso delle griffe nel contesto locale ha inciso in maniera rilevante in questo processo perché ha determinato non solo una disintegrazione verticale dei sistemi di impresa e una diminuzione delle dimensioni delle aziende, ma anche rilevanti conseguenze nel mercato del lavoro in termini di livelli salariali, professionalità e contrattazione sindacale (Bortolotti, Innocenti 2000). Se è vero infatti che in Toscana la struttura dei salari si presenta su livelli generalmente in linea con la media nazionale, nel Polo della pelletteria essi sono sensibilmente più alti12 pur rimanendo molto marcate le differenze tra i vari attori lungo la catena della subfornitura. Le piccole dimensioni delle aziende contoterziste e la pressione sui costi esercitata dai committenti è all'origine infatti di uno sventagliamento piuttosto ampio di situazioni lavorative e di livelli salariali.
Un dato che inoltre non è stato possibile trascurare nel rapporto coi lavoratori durante la ricerca è stato quello della differenza tra chi aveva o meno un impiego. Il massiccio ricorso alla cassa integrazione che si è verificato in Toscana negli anni della crisi ha infatti ingrossato le fila di coloro rimasti a casa a zero ore o disoccupati per la chiusura di molte aziende. Nel corso dell'indagine etnografica molti interlocutori stavano vivendo questa esperienza le cui ripercussioni economiche e sociali apparivano forse più drammatiche per gli italiani piuttosto che per i lavoratori stranieri. Come è stato evidenziato in studio a più ampio raggio (Reyneri 2010) le condizioni di lavoro, spesso penalizzanti, a cui sono sottoposti gli stranieri hanno potuto avvantaggiarsi da un lato del rilevante contributo delle donne migranti secluse nell'ambito del lavoro domestico (Gambino 2003) e, dall'altro, dalla cumulazione dei redditi dei componenti del nucleo familiare. La co-residenza con una seconda generazione che terminata la scuola dell'obbligo si è subito impiegata in maniera sia regolare sia irregolare, ha permesso infatti a molte famiglie migranti di compensare la mancanza di un salario. Emil, per esempio, è un ragazzo albanese di 22 anni arrivato dieci anni fa in Italia a seguito del padre stabilitosi nel 1996 in provincia di Pistoia. Dopo aver lavorato a domicilio insieme alla madre nella produzione di tomaie13 mentre frequentava la scuola dell'obbligo, egli si è poi impiegato in una piccola impresa di calzature che produce contoterzi:
Mio padre è disoccupato, fino a dicembre ha la disoccupazione, quindi fino ad allora va tutto bene perché lavoro io, e bene o male 1000 euro li por to a casa, circa 1000 li prende lui di disoccupazione quindi con quasi 2000 euro tiriamo avanti, paghi l'affitto, le bollette.
Anche quando tuo padre lavorava contribuivi alle spese in casa?
Sì, sì sempre. perché mio padre non è che solo quest'anno è stato disoccupato... Per noi [albanesi] è una cosa normale, qui [in Italia] invece ... io c'ho parecchi amici che lavorano ma non danno niente in famiglia. Per noi invece è una cosa nor male, gli albanesi lo fanno tutti.
Quindi del tuo stipendio, pagato tutto non rimane molto...
Niente (Emil Leida, Operaio calzaturiero, Montecatini, Pistoia, 11 ottobre 2013).
Il ricorso alla famiglia anche attraverso strategie di ricomposizione della residenzialità è apparso indispensabile anche per lavoratori italiani, come Sonia che dopo una lunga esperienza operaia in un'azienda di tessuti che produce contoterzi per grandi marchi si è ritrovata in cassa integrazione con un bambino da allevare da sola. A 35 anni questa giovane donna è tornata quindi a vivere coi genitori che si sono rivelati una risorsa fondamentale anche per sua sorella, il cui marito è rimasto disoccupato:
Io vivo insieme ai miei genitori ma non è che i miei genitori mi possono... più di tanto... praticamente nella mia casa ci sono quattro famiglie nella stessa situazione: i miei genitori, io con mio figlio, mio fratello che per ora ancora regge col lavoro e mia sorella che ha due figli ma lavora solo lei, perché suo marito non gli è riuscito di trovare lavoro, o se trova, trova tramite le cooperative che un mese non prendi nulla e poi stai a casa (Sonia Operi, Operaia nel settore tessile, Pistoia, 8 novembre 2013).
Il ruolo svolto dai genitori e dalle loro pensioni ha reso tangibile nel corso della ricerca non solo la composizione mista del welfare in Italia, ma anche i processi di ristrutturazione del settore. Se è vero infatti che i destini di molti interlocutori in chiave intergenerazionale sia intragenerazionale si sono intrecciati nel percorso storico di una stessa azienda, sono le generazioni più giovani ad aver sperimentato i modelli più flessibili di occupazione. Le conseguenze peggiori della crisi attraversata dal settore sembrano tuttavia essere ricadute con maggiore gravità sui quaranta-cinquantenni come Antonio, un operaio che ha sperimentato sulla sua stessa vita privata le alterne vicende del comparto dell'abbigliamento toscano:
Io in questi anni ho potuto vivere decentemente solo perché ho la casa di proprietà e abito con mia mamma che ha la pensione, ecco! Non sono mai andato a vivere da solo e questo poi è andato a cascata su tutto, sulla vita personale, sulla vita privata. È brutto. Ma io ho sempre avuto un lavoro precario, tre anni di là, quattro di qua, cinque da un'altra parte. Per quanto mi riguarda è entrata in ballo la sfor tuna. Perché ho sempre lavorato in aziende che hanno chiuso, o hanno fallito o fatto riduzioni del personale [...] Quindi sempre con questa spada di Damocle sulla testa, non ho potuto vivere la mia vita privata con la persona con la quale stavo perché non ho potuto prendere una casa e quindi potevo vivere questa storia un po' a distanza. Quindi il lavoro mi è andato a cascare su tutto (Antonio Araldi, Operaio nel settore tessile, Pistoia, 23 settembre 2013).
Il riferimento alla continuità e soprattutto alla stabilità del lavoro è frequente nella relazione etnografica. La certezza di un reddito segna la differenza tra chi può fare riferimento a flussi finanziari alternativi al proprio e quindi soffrire meno della temporanea mancanza di lavoro e chi invece deve rincorrere ogni possibile occasione di lavoro, così come tra chi riesce a costruire, pur sulle alterne opportunità lavorative, una prospettiva di professionalizzazione e chi invece non riesce a riconoscere e a definire un proprio progetto. In questo variegato panorama ricorre spesso il tema del lavoro irregolare, sotto-inquadrato e retribuito attraverso il salario "fuori busta" oggi come in passato, come emerge dalla testimonianza di Sonia, operaia nel settore tessile:
Io ho lavorato 11 anni in un'azienda di tessuti. L'inizio è stato pessimo perché facevo dalle 6 alle 20 la sera con mezz'ora di pausa.
14 ore?
Eh certo! Se volevo lavorare... come apprendista eh! C'era la busta paga normale e poi c'era il fuori, i primi mesi è stato sempre così. La mia busta paga era di 600, 700.000 lire, fuori busta prendevo 1 milione 200.000, 1milione 300 mila.
Quindi arrivavi a guadagnare con un inquadramento da apprendista 1milione e 800mila circa?
Beh, sono arrivata a prendere anche 4 milioni! Però era tutta una cosa... si faceva dalle 6 alle 21 alle 22 la sera.
Quindi senza orari...
Sì.
E poi, in anni recenti? Con l'euro, voglio dire, come è andata?
La stessa cosa (Sonia Operi, Operaia nel settore tessile, Pistoia, 8 novembre 2013).
In situazioni come quella appena descritta, l'infortunio sul lavoro derivato dall'uso di agenti chimici e macchinari che possono provocare schiacciamenti, tagli, amputazioni e ustioni può arrivare a sconnettere il fragile equilibrio tra datori di lavoro e operai come racconta ancora Sonia:
Che cosa ti sei fatta e cosa è successo?
Io il sindacato l'ho incontrato solo quando mi sono fatta male. L'ho chiamato io e solo quando l'azienda è fallita e ci hanno lasciato tutti a casa. Perché prima di por tarti al pronto soccorso, funziona così [...], ti por tano nella stanzina dell'infermeria in ditta, studiano la versione e poi ti dicono come dirla e io "va bene, la dico, tanto non mi cambia nulla". Allora a me è rimasta la mano dentro la macchina, non c'era l'emergenza, s'era a lavorare in tre, m'è rimasta sotto una cinghia e di solito con l'emergenza si ferma la macchina. S'era uno in cima e uno in fondo, quello in cima non mi ha sentito e sono stata mezz'ora con la mano dentro la macchina a tirare la mano, perché se ti va nei rulli, te la portano via insomma, non c'era l'emergenza dato che le macchine non erano tanto in regola. Insomma, arriva il meccanico per fermare la macchina, e la macchina non si fer ma! Va beh, è successo, anche per una distrazione mia non è solo colpa loro. Comunque, arrivano, mi por tano in infermeria, mi danno i primi soccorsi e mi dicono "aspetta qui e ti si dice la versione che devi dire perché ci s'ha già un processo aperto... ci s'ha problemi..." sicché dato che se uno si fa tanto male e ti danno più di 30 o 60 giorni ti mandano i controlli a raffica e ti controllano tutte le macchine, insomma con tutto questo ti dicono la versione. Mi por tarono alla guardia medica e io gli dissi quella versione, ma la prima cosa che mi disse il dottore fu "o che era incandescente codesta por ta su cui hai sbattuto?" [...] però il medico era di Montemurlo [un comune limitrofo], li portano sempre lì e lui chiude un occhio (Operaia tessile, Pistoia, 8 novembre 2013).
Come emerge da questa testimonianza, è solo quando il complesso rapporto tra imprese e istituzioni del territorio non riesce più a garantire il mantenimento del posto di lavoro che subentra il sindacato. Pur trattandosi, nel caso dell'abbigliamento e delle calzature, di settori storicamente meno sindacalizzati rispetto ad altri comparti manifatturieri, le rappresentanze erano e sono presenti nelle aziende di maggiori dimensioni anche se, in linea i massima, si può affermare che ci sia stato un progressivo sfilacciamento dei rapporti coi lavoratori. Nella quasi totalità delle situazioni osservate le rappresentanze vengono infatti chiamate in causa solo in occasione dei mancati pagamenti o degli infortuni che tra l'altro non sempre si traducono in vertenze individuali o di gruppo e infine, per accompagnare le aziende nell'accesso ai diversi ammortizzatori sociali. Sono del resto gli stessi rappresentanti sindacali a riconoscere questa situazione:
È da anni e siamo tutti coinvolti in una anomalia comportamentale nel senso che [i lavoratori] non ci vedono come interlocutori credibili, come loro rappresentanti perché ci vedono troppo vicini all'azienda, avere cioè un rapporto, una promiscuità con l'azienda. In questo senso io il lavoratore lo comprendo se dice che va da un legale perché dice "ma io ho visto il sindacalista e l'imprenditore che erano a prendere il caffè insieme". Io lo capisco insomma se il lavoratore che vive una situazione di sofferenza, che non è solo lavorativa ma anche sociale, riconosce per esempio in Landini un rappresentante ideale. Me ne rendo conto. Dobbiamo trovare la giusta collocazione, trovare un modo per vivere i rapporti con l'azienda, le relazioni industriali che non possono essere per ovvi motivi come 40 anni fa però non possono essere un ibrido come sono adesso (Rappresentante sindacale, Pistoia, 23 settembre 2013).
In un paesaggio industriale che, come si è visto, presenta tratti di concentrazione e forte disgregazione le condizioni e i rapporti di lavoro variano molto in base alla tipologia dell'azienda (produzione propria, contoterzista, produzione a domicilio) e alla forma dell'occupazione (regolare, irregolare, in nero con figure interessate da indennità o altri provvedimenti legati ad ammortizzatori sociali, lavori in cassa integrazione ugualmente attivi in azienda). Stante questa eterogeneità è necessario riconoscere come non sia raro imbattersi in situazioni anche molto diverse da quelle appena descritte in cui non solo il salario soddisfa la propria funzione di strumento di vita dignitosa, ma in cui l'impiego risponde alla realizzazione di diverse aspettative in termini di lavoro e, più in generale, di vita. Si tratta di piccole aziende a conduzione familiare in cui non è ancora avvenuto o è avvenuto con successo il passaggio generazionale e dove gli operai restituiscono una esperienza di lavoro positiva in termini di soddisfazione personale e professionale. Sono i contesti in cui durante le alterne crisi del settore che si è tentato di descrivere, la tenuta economica e democratica è stata sostenuta da «vasti strati di lavoratori di piccole e medie imprese» (Becattini 2000: 138) e da quei padroncini il cui familismo e paternalismo in fabbrica non ha impedito di mostrare una morale «prosciugando la propria rendita accumulata, nel tentativo di non licenziare gli operai con cui avevano simulato una comunità» (Bonomi 2013: 11). Uno di questi, è un imprenditore tessile pratese che si è indebitato per evitare il licenziamento e la diminuzione del salario di coloro con cui lavora:
la cosa più bella che ho fatto per l'azienda, per i dipendenti e per l'azienda, gli è che tre anni fa sono andato in banca, mi sono fatto dare 150mila euro - e me li hanno dati - per non perdere neanche un'ora di lavoro perché pensavo fosse una difficoltà molto grave. Non per comprare macchinari eh! per liquidità. Ed è andata bene perché l'ultima rata la pago ora a marzo. Così siamo riusciti tutti ad andare avanti e io, sinceramente, a dormire la notte (Mario Brutti, Imprenditore tessile, Prato, 19 novembre 2013).
Conclusioni
Come si è cercato di mostrare, i più recenti fenomeni di riorganizzazione produttiva devono essere letti alla luce degli effetti della crisi economica degli ultimi anni e delle radicali trasformazioni intervenute fin dagli anni Novanta a modificare gli assetti organizzativi del settore dell'abbigliamento e delle calzature. È nel quadro di assetti produttivi che si proiettano ormai su scala globale che devono essere analizzate anche le strategie di ridislocazione in Italia di alcune fasi produttive. Nelle logiche che hanno informato i modelli organizzativi più recenti un ruolo chiave sembra essere stato assunto dai grandi gruppi internazionali detentori di brand che hanno acquistato sempre maggiori spazi d'azione grazie alle possibilità finanziarie di investimento sulla produzione, così come sull'implementazione e specializzazione dei canali distributivi. Non basta tuttavia leggere questo cambiamento prendendo come unità di analisi le grandi aziende perché, come si è tentato di mostrare, in gioco è la riorganizzazione di tutto il complesso dei rapporti fra unità produttive, le interconnessioni tra l'area di produzione e quella della riproduzione sociale del distretto, il rapporto tra il sistema locale e il mercato internazionale. La presenza dei grandi brand ha garantito ad alcuni distretti di "reggere" durante il periodo di crisi economica, riproducendo rapporti di contoterzismo che appaiono ancora molto diffusi anche se costantemente messi alla prova dalla tendenza al "risparmio" dei committenti e da una presenza cinese che, seppur con qualche caso di emersione, rimane ampiamente occultata. Questi elementi hanno fatto da sfondo all'indagine sui mutamenti della struttura produttiva locale nel quadro della crisi e del tentativo di tratteggiare le condizioni di lavoro (orari, impiego regolare o irregolare, lavoro a domicilio) e i livelli salariali nei settori dell'abbigliamento e delle calzature. Nonostante livelli retributivi si attestino sulla media nazionale, la precarietà del lavoro e del salario è un aspetto che caratterizza oggi l'esperienza del lavoro e che rende necessarie, a fronte della sempre più frequente cassa-integrazione e della disoccupazione, diverse strategie di fronteggiamento prima fra tutte quella del ricorso alla famiglia d'origine e a forme di coabitazione. L'effetto della crisi sembra avvertirsi anche a livello della dimensione collettiva dell'esperienza del lavoro già minata dalla flessibilità nelle sue forme più variegate e da una certa deregolamentazione dei rapporti all'interno dei luoghi di lavoro (salario regolare e irregolare, fuori busta, lavoro a domicilio). In questo quadro un ruolo risibile sembra inoltre giocare il sindacato, non tanto rispetto alla consapevolezza del malessere dei lavoratori, ma come parte in causa di una scompaginazione di ruoli e posizionamenti che, in tempo di crisi, appaiono meno distinguibili.
1 L'indagine sulle condizioni salariali e sociali dei lavoratori del comparto dell'abbigliamento e delle calzaturiere si è svolta in équipe con i sociologi Devi Sacchetto e Davide Bubbico che si sono occupati dei sistemi produttivi e dei mercati del lavoro rispettivamente veneto e campano (Sacchetto, Bubbico, Redini 2014).
2 Da maggio a dicembre 2013 ho svolto ricerca nella zona di Firenze, Prato e Pistoia attraverso inter viste in profondità con imprenditori/ trici, manager, funzionari sindacali, lavoratori/trici italiani e stranieri e altre persone in qualità di testimoni privilegiati. Nel corso della ricerca ho inter vistato circa 25 soggetti individuati attraverso reti formali e informali sviluppate nel corso del tempo. In alcuni casi ho potuto anche visitare i contesti di lavoro dei vari interlocutori.
3 Come d'abitudine nelle rappresentazioni etnografiche, i nomi delle persone qui variamente citate sono fittizi.
4 Tra il 2001 e il 2005 la diminuzione del fatturato è stata ingente nel settore tessile (-23%), dell'abbigliamento (-5%) e della pelletteria (-12%) e ha deter minato una perdita di posti di lavoro che ha riguardato circa 100.000 lavoratori, prevalentemente donne e soggetti con basse qualifiche (Felicioni, Bonora 2006).
5 Il ter mine è generalmente usato per indicare la successione ordinata di attività produttive tra loro concatenate. Attorno ad ogni passaggio di questo sviluppo può costruirsi un insieme di produzioni capaci di generare interconnessioni, non necessariamente fisse e continue nel tempo, attivabili anche a richiesta (Arena, Rainelli, Torre 1985).
6 La produzione del distretto è principalmente rappresentata da articoli di pelletteria quali borse (33%), por tafogli (15,3%), cinture (2,4%), oltre a valigie, sacche da viaggio, borsoni, borse da lavoro (Intesa Sanpaolo 2008).
7 Oltre a una fitta rete di piccole e medie imprese artigiane, collocate nelle diverse fasi produttive, all'interno del distretto sono presenti aziende specializzate nel rifornimento di componenti e accessori e rivenditori di macchinari per la pelletteria che offrono anche assistenza. Si è inoltre diffusa una rete di soggetti specializzati in ser vizi di consulenza per lo stile e l'organizzazione degli stabilimenti (Intesa Sanpaolo 2008).
8 Più precisamente questo concetto indica il ruolo svolto dalla marca per «introdurre un nuovo prodotto in contesti competitivi più o meno lontani rispetto al business in cui essa ha tradizionalmente operato» (Bertoli, Busacca, Levato 2006: 1).
9 A partire dall'inizio degli anni Novanta i lavoratori cinesi si sono gradualmente inseriti nel sistema produttivo locale prima nel circuito del lavoro a domicilio e del contoterzismo uscendone poi per divenire a loro volta imprenditori e committenti nel segmento del prontomoda. La rilevanza economica del comunità è cresciuta parallelamente all'aumento degli immigrati arrivati in gran par te alla metà degli anni Novanta in maniera irregolare e poi regolarizzatesi con i provvedimenti di sanatoria che si sono nel tempo succeduti.
10 Questo tema è oggetto di studi or mai numerosi. Per uno sguardo d'insieme si rimanda a: Ceccagno 2003; Colombi 2002; Johanson, Smyth, French 2010).
11 La categoria di "pronto-moda" e quella di "programmato" fanno riferimento alla tempistica che intercorre tra l'ideazione del campionario e la produzione. Il "programmato" è entrato in crisi negli anni Ottanta quando la difficoltà a prevedere in anticipo i gusti dei consumatori e l'evoluzione della domanda verso prodotti personalizzati ha determinato un incremento della variabilità delle produzioni. L'approvvigionamento dei prodotti si è quindi spostato sempre più verso il "pronto moda" una produzione cioè che, a ridosso delle stagioni di vendita, ha determinato un notevole accorciamento dei tempi produttivi.
12 Dall'elaborazione dei dati Istat emerge che nel distretto di Scandicci i salari si attestano sui 1.500 euro netti al mese per un primo impiego, e intorno ai 3.000 per una mansione qualificata a fronte di una retribuzione mensile media netta percepita dai lavoratori dipendenti che nel 2012 era pari in Toscana a 1.235 euro (Clean Clothes Campaign 2014).
13 La tomaia è la par te superiore della scarpa, quella che fascia interamente il piede e che è formata da un pezzo sagomato per può essere cucito o attaccato alla suola. Per le caratteristiche che ne presiedono la lavorazione è la fase della produzione calzaturiera sulla quale maggiormente hanno leva i processi di riduzione a domicilio e di delocalizzazione della produzione.
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Veronica Redini, PhD, she was Post-doc and Research Fellow at the University of Perugia. She teaches "Anthropology of Health Care" at the University of Florence and "Anthropology of Migrations" at the University of Modena. Her work focused on working and wage conditions in the Italian garment industries delocalized in Eastern Europe and in Italy. She has done fieldwork researches in Romania (2002-2009, region of Timisoara) and Moldova (2009, region of Chisinau) where she has become interested also migration from Eastern Europe. Since 2010 she works about health policies in Umbria (Italy). Among her publications: Frontiere del "made in Italy". Delocalizzazione produttiva e identità delle merci (Ombre Corte, 2008); Del dare e togliere corpo al lavoro. Luoghi, merci e persone nel processo di internazionalizzazione delle aziende italiane in Romania, in F. Gambino, D. Sacchetto (a cura di) 2007; L'intreccio perverso. Conflitto e strategie di mediazione tra delocalizzazioni produttive e migrazioni in D. Sacchetto (a cura di) 2011; with M. Minelli, Vulnerabilità e agentività nella sfera più intima (2012), Il "caso", la vita e le sue condizioni. Per un'antropologia politica del welfare state oggi in Italia (2015).
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Copyright Universita degli Studi di Firenze, Dipartimento di Scienza Politiche Sociali Dec 2015
Abstract
Interest in back-reshoring strategies has gained momentum recently. However, this phenomenon little is known so far about wage and working conditions. This article focuses on plants in Tuscany of luxury global firms that reverse previous off-shoring by bringing manufacturing back home. Drawing on interviews with workers and privileged informants, the article outlines the deterioration of working conditions through the subcontracting relationships of value chain. The main thesis of this paper is that in order to understand the on-going changes there is a need to shows the structural role of interlacement of capital, intangible assets and labour.
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