Abstract
The essay highlights on relationship between educational planning, the concept of "opera" and narration.
Therefore the essay considers first of all the pedagogy of Giovanni Maria Bertin and his "Pedagogic Problematicism", a theory that promotes an intentionality of pedagogy that surpasses dogmatic positions.
In this direction, central is the role played by the relationship between the subject and the world, a link that, in this essay, refers to the ways thanks to which these two complement poles interact each other determining "productive events" of meaning
The outcome is an anti-dogmatic approach that prevents skeptic results in order to produce "opera".
However, this "opera" intended as a relationship between ground and world built on the recognition of "a thousand plans" beneath what we can "call life" and make "life story".
Producing "opera" means knowing how to narrate oneself and decide to narrate means "cultivating and caring for own subjectivity creatively oriented". Indeed, an education which makes subjects competent in narrate oneself produces new and open "frames" to "begin to govern" story and life.
Keywords
Narration, Education, Pedagogical Problematicism, Self-Construction,
Il Sé è probabilmente la più notevole opera d'arte che noi mai produciamo, sicuramente la più complessa.
Bruner
Fermi a ottant'anni fa
Provocatoriamente, ma anche qui è da vedere poi in che misura, il titolo del paragrafo ci indica un "segnare il passo" da parte del pensiero o, forse più ottimisticamente e realisticamente, il periodo in cui ha all'incirca avuto luogo l'ultima rivoluzione "paradigmatica" nel campo dell'interpretazione dell'opera d'arte. Una rivoluzione che oggi ci vedrebbe attraversare linearmente la sua "fase normale" - direbbe forse Khun - con un senso di ottundimento proprio dell'affermarsi della consuetudine a pensare per determinati schemi, a per- correre implícitamente e inconsapevolmente alcune direzioni interpretative, a vivere secondo una data modalità di relazione con il reale, con il mondo.
Circa ottant'anni fa Martin Heidegger (nel 1935-6) scriveva un saggio che non avrebbe lasciato indifferenti le interpretazioni del "cosa dell'opera d'arte" del "perché", del "come", del "quando". Il saggio su L'origine dell'opera d'arte è, a suo modo uno snodo filosofico-estetico che pone questioni che la riflessione e l'azione pedagogica difficilmente, e solo colpevolmente, possono ignorare. Questioni inerenti il valore che il prodotto dell'uomo per eccellenza, della sua generatività (il risultato del suo creativo produrre anche nell'"era della riproducibilità tecnica") puo avere in termini di riflessività, pensiero, critica, riconoscimento... di progettualità esistenziale.
Progettualità innanzitutto. E, per questo motivo, è nostra intenzione iniziare da qui.
La progettualità come problema
Cominciamo, dunque, dall'idea di pedagogia cui ci riferiamo (Bertin, 1970; Frabboni & Pinto Minerva 1998, Bertin & Contini 2004; Baldacci, 2012 solo per citare i riferimenti più noti) che assume come acquisita la condizione di molteplicità e trasformatività - in una parola problematicità - dell'esperienza. Una condizione, questa, che impone all'uomo e alla donna un definitivo abito di ricerca nel tentativo di, e nel tendere a, instaurare una relazione con il mondo tale da consentire una "serena" (possiamo anche dire "utopica") comprensione dei nessi vicendevolmente trasformativi che li legano in maniera indissolubile. Si tratta dell'affermarsi di una ragione antidogmatica che, pero, non è un processo naturale, anche se, di fatto, è quanto possiamo riconoscere essere più proprio dell'uomo. È infatti evidente come privare l'uomo della sua possibilità di critica significhi farne un vivente per cui parole quali dignità e libertà hanno poco o alcun senso. Tuttavia non è difficile riconoscere come, per molta parte delle vicende storiche legate al pensiero, si siano alternate varianti di una matrice ideologica uniforme (anche se variamente declinata), talvolta metafisica, cui poter ricondurre specifiche interpretazioni del rapporto uomo-mondo. È questa una storia in cui un ruolo importante è stato certamente ricoperto dalle pedagogie che, di volta in volta, si sono spesso caratterizzate per la loro posizione ancillare rispetto a ricostruzioni ontologiche, assiologiche, esistenziali (de Bartolomeis, 1981; Fanon, 2007; Illich, 1973).
In questa prospettiva, la ragione antidogmatica, quando sia posta ad attendere al modo di pensare dell'uomo, si pone come primo obiettivo il riconoscimento di come le diverse possibilità di darsi dell'esperienza siano, comunque e sempre, sottoposte a innumerevoli possibilità interpretative. E la vitalità, intesa come qualità di un procedere trasformativo che non necessariamente possiede una direzione predeterminata, consegue a questo modo interpretativo e "laterale" di relazionarsi con il mondo, rendendo più "gioioso" (danzante, metamorfico, proteiforme) il vivere e con-vivere mentre, per lo stesso movimento, lo rende meno "atarassico" (sereno, pacificato, determinato).
L'azione del riconoscere è il primo passo per risolvere le difficoltà che il pensiero antidogmatico porta con sé. Risoluzione che evidentemente non deve, né puo, ricomporre l'ordine interpretativo che la stessa sua azione ha posto sub judice (e condannato alla non-attualità in ragione di un valore inattuale). il percorso deve portare altrove, e razionalmente, ossia in risposta al valore di una integrazione delle differenze che non le neghi, ma non le assolutizzi. Le medi piuttosto, appunto secondo un procedere che non dissoci i principi "legalizzanti" un agire riflessivo (la teoria) dal rilievo pratico e storico del suo senso (la prassi). E, questo, anche quando si tratti di "inscrivere" il problematico in una specifica cornice interpretativa, una semplificata direzione di senso, che si giustifica, metodologicamente, a partire dalla scelta di una strategia di indagine.
Questa tensione problematica è propria anche (verrebbe da dire soprattutto) dell'ambito pedagogico e, in particolare, di una interpretazione pedagogica che oggi si riconosce essere portatrice e promotrice di una formazione razionale-e-storica. La stessa prima (in ordine di importanza) azione formativa, tradotta con le parole di un "educare a pensare", traspone direttamente gli obiettivi dell'agire formativo da un piano dei saperi o dei comportamenti (funzionali) a un piano dell'essere uomo (proteiforme), con cio trasponendo le finalità dell'agire educativo da un qualsiasi livello strumentalmente politico, etico o sociale (dogmatico) a quello della riaffermazione dei valori dell'umano (razionale e storico) a partire dalla competenza ricostruttiva di direzioni di vita, di indagine e di ricerca. Che significano, anche, di critica, di attiva resistenza, di democratica negoziazione.
Una progettazione trasformativa che fortunatamente non ha da soggiacere a una qualsiasi proiezione orientativa che ne indirizzi l'impegno ma che ha necessità di fondare il proprio agire unicamente su un costrutto riflessivo che sappia riconoscere e costruire da sé i propri "segnavia", a partire dalla sinergica pratica di una razionalità antidogmatica e dialettica e di una pragmatica duttile e contestuale.
Il rilievo del mondo
In questo esercizio di progettazione volto ad affrontare in modo metabletico la problematicità dell'esperienza, un ruolo in-trascendibile è giocato dal Mondo. Esso è polo dialetticamente e transattivamente preso nel rapporto integrativo con l'io, offre materia di pensiero, di riflessione, di intervento e, in alcune rare e significative circostanze, offre "materia" e basta. Quest'ultimo è uno dei più rilevanti assunti dell'estetica heideggeriana e del suo modo di intendere l'opera d'arte. Assunto che intendiamo recuperare in relazione alla sua utilizzabilità educativa, soprattutto in direzione di un uso progettante delle potenzialità (e della riflessività) dell'uomo. Possibilità cui si giunge dopo aver attraversato la, comunque formativa, interpretazione "consueta" dell'opera d'arte.
Fatte queste premesse, due sono allora le principali letture che si possono seguire e i relativi ruoli che possono essere riconosciuti alla produzione artística in chiave di progettualità umana:
* in primo luogo, e più consuetamente si diceva, l'opera d'arte è ostentazione e "esposizione del mondo" (in un certo senso è il "significato intrínseco" di Panofsky, 1999) e, in tal modo, criteri quali, ad esempio, la rappresentazione della "perfezione delle forme" possono essere in essa elevati a criteri di misurazione del valore della stessa e, operando una traslazione di campo, di esemplarità formativa per una pedagogia direttiva. L'opera è esemplare di una temperie storica, sintetizza le possibilità culturali di interpretazione del mondo e dell'uomo. Tutto la proietta in un "già stato" e la propone come "la forma migliore", in metafora, il dogma della perfezione;
* in secondo luogo, e più raramente, l'opera d'arte è "produzione della terra" (Heidegger, 1997) e, in tal senso, i valori non riescono ad attecchire su di essa perché cio significherebbe ricondurre la "terra" al "mondo" (ricondurre un "territorio" a una "mappa"). In questa condizione, invece, la particolarità dell'opera d'arte è tutta nel contravvenire alla sua possibilità di non esser li. Un qualcosa di non necessario è presente, e il suo esser presente de-forma quella rete di rimandi vicendevoli che costituisce la possibilità di significare un evento, una storia, una cosa. L'opera d'arte si pone al di sopra di questa rete e, come un "buco nero", attrae verso sé e modifica a sua immagine (in maniera proiettiva e proattiva) l'ordine dei significati ai quali resta irriducibile.
Dunque, se nel primo caso l'opera d'arte ha essenzialmente una funzione didascalica ed esemplare, nel secondo essa è avanguardia generativa di mondi e rappresentazioni che non corrispondono al "già dato", aprendo cosi a mondi possibili. Pedagogicamente è questo secondo aspetto che intendiamo mettere in luce. Quella interpretazione che, dunque, vede nell'opera d'arte e nell'esperienza artistica che ad essa si accompagna (sia che si parli di produzione che di fruizione) il tramite attraverso il quale ricongiungere l'uomo (o almeno alcuni di essi) con il suo essere aperto a virtualmente illimitate possibilità creative, "salvato" da un destino di indifferente e funzionale replica personale, culturale e sociale; dalla massificazione e dalla cristallizzazione in una esistenza "inautentica" del "Si".
Il realizzarsi, cosi come il manifestarsi, dell'opera porta a riconoscere un diverso modo di entrare in relazione con la terra ed il mondo che si fonda sul riconoscimento di densità, spessori, mille piani che si condensano in quanto noi possiamo chiamare vita e materializzare in "racconto della vita" (Bruner, 1997; 2002). Questa dimensione - non manipolatoria perché, si è detto, non replicante e metacognitiva - si scopre razionalmente e, allora, si impone come limite e antidoto nei confronti di quelle rappresentazioni dell'uomo, del mondo, dell'educazione che si giustificano a partire da principi strumentali e gestionali dell'alterità e delle differenze che, nel peggiore dei casi, sono in grado di andare ben oltre il già pericoloso controllo dei comportamenti sociali, per inglobare, come insegna un'ampia letteratura critica e fenomenologica, istinti morali, immaginari rappresentativi consapevoli o meno, sensorialità e sensibilità corporee, proiezioni umanistiche (Cambi, 2006; G. Dalle Fratte, 20032004; Mottana, 2001; Id, 2012; Frabboni, 2010; Frabboni & Pinto Minerva, 2014; Margiotta, 2006; Contini, Demozzi, Fabbri & Tolomelli, 2014).
Emerge con tutta evidenza, allora, il valore educativo dell'opera d'arte quando essa aiuti a riconoscere il manifestarsi e l'esistere di proiezioni e progettazioni esistenziali non "installate" in logiche di controllo tecnico che legittimano l'utilizzo del mondo e dell'altro uomo. Ed è l'imporsi di queste possibilità di progettazione esistenziale che lega l'opera a identità biografiche (sia dell'autore, sia del fruitore), facendone vitalità che lascia un segno, che traccia una differenza, che dà origine e conserva nuovi confini, significati, sensi, ed è esempio ed esperienza dell'"incondizionato" (Simmel, 1985), di cio che ha valore in quanto risultato originale di uno sviluppo che, pur restando storico e materiale, non segue né riproduce logiche e pratiche eterodefinite. L'opera diventa esempio ed emblema della vita come gràfein, di una storia che, narrata, diventa possibilità di svolta, nuovo cammino, solco, tracciato, nuovo limite e orizzonte, differente identità, dialogo e conflitto uomo-mondo.
L'opera, nel suo essere narrazione, è, dunque, il migliore esempio di come, per poter essere, qualunque cosa, compreso l'uomo stesso, debba intrattenere un dialogo non pacificato con l'alterità. Ed è in tal senso che essa diventa rappresentativa di una specifica dinamica tras-formativa ma, soprattutto, diventa modello cui ispirarsi per vivere normativamente e riflessivamente la propria vita, diventa educativa, orientativa di una progettualità esistenziale per la quale centrale è l'idea che le biografie dell'uomo sono tali se, e soltanto se, si rivelano essere dotate di senso, uniche, irripetibili, di valore. Ossia, appunto, se sono opere.
E la prima conseguenza è che la formazione delle biografie non puo realizzarsi se non per mezzo dell'intessere una relazione narrativa con il mondo altro e dell'altro, quando, rivelando qualcosa di sé nella continua tessitura della trama che è la propria vita come storia, sono messi in luce i limiti e le false necessità delle metanarrazioni condizionanti il pensare e l'operare dell'uomo.
La vita come opera e la narrazione come costruzione della vita
La capacità di costituirsi come narrazione, come opera, come pratica di vita diventa metacriterio valutativo del concreto dipanarsi della storia dell'uomo ma, e questo punto è particolarmente importante, non tanto rispetto ai contenuti particolari o ai valori specifici che in essa si succedono, quanto in riferimento ai modi in cui la narrazione prende vita e forma. E, in tal senso, il solo apparente eclettismo (o scetticismo) cui sembra condurre tale prospettiva trova argine nella irriducibile impronta geneticamente autopoietica della fisiologia umana che lo vincola a riconoscere, in contemporanea e in modo altrettanto completo e radicale, le impronte "sociale" e "culturale" che lo connotano in quanto specie (Morin, 1993; 1998). In tal senso, la narrazione, intesa come costruzione di una vita in quanto opera, è un principio della epistemología di specie dell'essere umano. È un tratto della sua umanità, qualcosa senza la quale la stessa vita dell'uomo non è più riconoscibile in quanto tale, essendo privata di senso, valore, prospettiva, gioia, proiezione.
Nel narrarsi, ossia nel costruire una vita che, in quanto propria, è opera, il soggetto in formazione si espone (si pone al di fuori, oltre e altro, ma al contempo, si allontana dalle sue certezze) per la prima volta, si "sposta" dalla sua usuale posizione e assume cosí, una condizione (scoperta) di massimo rischio ma, anche, di massima produttività e possibilità di essere e partecipare attivamente al divenire e alla vita del mondo.
Il pensiero, allora, diventa realmente produttivo e riproduttivo (non replicante) di mondo. Mette in pratica la rivoluzione della norma, falsifica la verità (o almeno ci prova), ricerca piani interpretativi altri e irriducibili, e questo, in fondo, semplicemente avendo rimesso al cuore della propria vita il valore dell'esistenza come progetto, della biografia come orizzonte di senso continuamente decostruito e ricostruito. Per l'uomo si tratta, a nostro parere, di un "compito di specie" cui pero non è obbligato ma che "puo scegliere" se perseguire. E il compito specifico della formazione è trasformare quel "poter scegliere" nel "desiderio di operare una scelta", senza, naturalmente, indicare che cosa: "la scelta per la vita" è questione pedagogica, non "per quale vita" (Bertin, 1970). Cio è sufficiente per definire il compito di personale autorealizzazione di ciascuno in quanto soggetto-persona.
Ecco perché le narrazioni - che a nostro parere, se sono tali, sono sempre biografiche - occupano un posto centrale nel pensare-fare pedagogia. Le storie indicano svolte, che possono essere condivise e comunicate ad altri ma che, anche quando non lo sono, comunque servono alla soggettività che dà loro vita per riprendere la trama della propria esistenza, un filo da riconoscere e che inevitabilmente conduce alla conoscenza di se stessi, dei propri limiti e delle proprie possibilità, delle proprie resistenze e dei potenziali, dei retaggi e delle rivoluzioni in corso, donando coscienza, consapevolezza e benessere anche nella tragedia, anche nella difficoltà estrema. Nella mancanza di certezza, nel disorientamento e nei passaggi della vita più delicati ed esposti al rischio, la narrazione di sé è forse la più efficace risorsa cui potersi affidare per ristabilire un rapporto con un mondo compromesso dalla crisi (Demetrio, 2012).
La narrazione di sé è quella "fonte" metaforica da cui ha origine quanto diventa la soggettività e, dunque, quanto nutre il mondo di vita. È ricostruzione di una "prospettiva metarazionale" (Cambi & Piscitelli, 2005), comprensiva e complessa e che, pertanto, non puo essere ridotta a oggetto da parte di istanze analitiche (psicologiche e/o storico-sociali) che, smembrandola e pretendendo di dirne la verità al soggetto narrante, decretano la morte dell'opera.
La narrazione deve poter restare altro di differente da quanto di essa dicono suoi critici ed interpreti, e cosí conservare e donare cio che Heidegger chiamo lo Stoss proprio di ogni opera. La scossa, il sussulto, il tremito di scoprirsi "presi" in un mondo aperto dallopera, nella narrazione da essa costruita di un "mondo come opera" (nel quale, tra l'altro, in realtà già da sempre siamo). Di fronte a un diario, a una lettera, a un dipinto, a un post ecc. la realtà puo dipanarsi sotto i nostri occhi improvvisamente, rivelando la nostra condizione di strutturale estraneità al mondo e inducendo non di rado un vissuto di spaesamento e disorientamento. E nell'esperienza di questa perdita che forse si puo scoprire la vocazione umana a progettare attraverso la costruzione di storie e opere. Attraverso il sentimento del "perturbante" ritrovarsi di fronte a un mondo come altro-mondo che apre a altra conoscenza e altra possibilità. Estasi che va oltre la contemplazione del mondo e dall'opera narrante e porta alla pienezza della vita.
Per questo, è vero, la narrazione puo essere privata ma, al contempo, non puo non implicare, per sua stessa natura, la relazione con l'altro soggetto o mondo, società o cultura. Anzi ogni narrazione intensifica, pure nella pagina segreta di un quaderno, la relazione con il mondo e lo rende più ricco, dinamico, proteiforme. Rompe la compostezza irrigidita dei protocolli e riattiva quella "segmentarietà" (Deleuze & Guattari, 1996) che articola in maniera attiva la sfera dell'io con quella del mondo.
Narrazione e governo della vita
In tal senso, sapersi narrare, saper produrre narrazioni significa optare per "essere" opera generativa, significa coltivare e curare la propria soggettività come possibilità interpretativa riflessivamente e creativamente orientata, invincibile rispetto alle logiche sovraordinanti il pensiero e l'azione, l'etica e la relazione perché già il semplice mettere in forma i pensieri attraverso un atto poieutico (scritto o figurato, materico o musicale ecc.), già il semplice atto del raccontare qualcosa significa aprire uno spazio interpretativo, istituire una cornice, elaborare un mondo ossia "iniziare a governare" una storia, una emozione, una crisi ecc. (Cyrulnik, 2002).
Narrare significa, dunque, sottrarsi al potere del già dato per contrastarlo con il potere di un mondo da costruire. Significa instaurare una relazione simmetrica tra forze etero e autodeterminanti. Significa darsi spazio, prendere aria, riconoscere tempo perché "io" possa essere "altro" rispetto alle forme identificatorie alienanti del "prima". Significa desiderio della non-totalizzazione, della non-unità del e nell'evento, desiderio come differenza che si vuole costitutiva di soggettività antagonista che contrasta il folle ideale sia di una soggettività totale (narcisistica e implosa) sia di una soggettività totalmente socializzata (anonima e esplosa). Nella narrazione, dunque, il soggetto si costituisce e si separa, in un certo senso si riappropria di sé. Ed è, questo, un atto che costituisce in forma umana (parziale, contraddittoria, prospettica e dunque dialogante e comunicativa) cio che prima era una soggettività costituita in forma disumana (totale, lineare, assoluta e dunque assordante o senza parola).
Narrando storie e costruendo opere si restituisce praticabilità a parole, immagini, discorsi, saperi che, quando non rimossi, sono la base minima sulla quale poter cercare di riaffermare modelli relazionali improntati a forme di solidarietà intra- e intergenerazionale tramate di cultura e socialità, di tradizione e di innovazione, di singolarità e comunità, di differenza e di identità che dan- no accesso a quel senso di continuité storica senza il quale parole come etica, responsabilité, bene comune e via dicendo sono semplicemente prive di senso.
In tal modo, una pedagogia attenta ai destini comuni, solidaristici e politici dell'uomo deve centrarsi con sempre maggiore convinzione sulla figura del soggetto in formazione, mettendolo nelle condizioni di narrarsi per mezzo della formazione agli alfabeti storici e plurali attraverso cui costruire mondi e approntando contesti formativi promotori di una comunicazione aperta e contaminata, eticamente orientata e percio impegnata, con l'intento esplicito di salvare l'esperienza dell'uomo da una sua riduzione a "eccezione" della vita perché "eccedente" l'idea di una soggettivité integrata e violentata nei propri potenziali linguistico-espressivi, attraverso i quali "poter-essere particolare, poter-esprimere unicité, poter-produrre immaginari, poter-incarnare desiderio".
A questo punto, il riferimento alla narrazione come opera, come pratica umana e, al contempo, umanizzante dell'uomo ci induce a riflettere sulla stessa "natura poetica" dell'uomo. In un certo senso, infatti, ogni narrazione è un atto poetico a patto di intendere la poesia come cio che dona senso, come arte di ricostruzione di sistemi e disvelamento di sensi nascosti a partire dalla sua originale "intensione esplosiva" ossia dalla sua vocazione a esser di più rispetto al certo e al lineare predefinito.
Tale intensione (non intenzione) è la natura della narrazione poetica e ragione del suo esser differenza ma non separazione dal contesto originario. Una narrazione poetica che fosse separata e decontestualizzata, infatti, finirebbe per perdere la sua connotazione esperienziale che, deweianamente, la connette con le dimensioni dello sforzo e dell'impegno. Nella prospettiva di Dewey, una volta traslato il concetto di opera d'arte alla nostra narrazione poetica, è lecito poter affermare che essa deve poter assolvere alla funzione di esperienza "chiarificante e intensificata" della relazione uomo-mondo (Dewey, 1960). Ecco perché, si diceva, la dimensione pubblica della narrazione non deve significare "separazione" di essa rispetto a un contesto rispetto al quale essa svolge il compito di indicare una continuité pure radicata nella divergenza.
L'opera (e l'operare) narrativo dunque rinnova i linguaggi utilizzando le stesse parole e riferendosi allo stesso "territorio" condiviso da altri, ma seguendo, scoprendo, costruendo rinnovate mappe e percorsi esistenziali comunicabili. E, in tal senso, una formazione che abitui a ricostruire narrativamente i sensi del mondo si fonda innanzitutto sulla promozione di una consuetudine nel coltivare l'inusuale, l'inconsueto, lo spaesamento, la meraviglia, il fantastico e il divergente. Insegnando a "errare" costruttivamente e intelligentemente nell'uso e nell'abuso degli alfabeti e delle logiche consuete la narrazione si rivela istanza fecondante e necessaria per lo stesso manifestarsi della evolutivité aperta del pensare e del pensiero che, in forma poetica, è "cio che incita perennemente alla vita, alla vita perenne" (Nietzsche, 1975, p. 43).
Il gié richiamato senso "perturbante" della narrazione, infatti, non resta fine a se stesso ma, diversamente, suscita com-passione, avvicina, invita a com-prendere e, con cio, a ricostruire trame sociali e culturali che sono oltre le ufficiali storie e interpretazioni. In un certo senso, la possibilità di godere di una narrazione riporta il soggetto in formazione a ricordare come la vita sia la costruzione di un sentiero che intreccia storie di persone e istituzioni, culture ed eventi che determinano quotidiane piccole o eclatanti conquiste di spazi che resterebbero altrimenti rinchiusi in dogmatismi socio-etno-centrici (a volte inconsci). Leroismo del soggetto narrante, pertanto, è soprattutto nelle "piccole cose", nella presa di consapevolezza della sua soggettività come della socialità con cui e attraverso cui si costruisce, nel saper mettere in contatto originalità personali per poter ricostruire un orizzonte condiviso di dialogo, negoziazione, sfida, compromesso. Ed è in tal senso che è tanto più necessario promuovere consapevolezza e competenza narrativa, perché ad esse si accompagna quella riforma umanistica del pensare e del pensiero a partire dalla quale ciascuno puo riconoscere in tutti gli altri l'"essere umano".
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