Key-words: Miron Costin, Moldavian chronicles of the 17th Century, poem "The Life of the World", literary influences, Romanian versification, Ottoman dominance under the Balkans, Romanian patriotism
Felice sintesi dei valori permanenti della cultura classica e delle esigenze spirituali di un secolo inquieto, avvinto dalle lusinghe barocche, il poema Viiata lumii ['La vita del mondo'] di Miron Costin (1633-1691) racchiude nei versi incerti e talora claudicanti una sofferta riflessione su temi esistenziali che, da un canto, rinvia alla lezione di Omero, Erodoto, Virgilio, Orazio, Ovidio, Seneca e, dall'altro, si apre alla parola della Bibbia e della Patristica. Per il genere l'opera rappresenta una novità quasi assoluta nel panorama letterario romeno, essendo la sua scrittura poetica preceduta solamente dai tentativi del metropolita Varlaam, che alcuni decenni prima aveva frammisto alla Cazania ['Omelia'] tre brevi composizioni (in tutto ventotto versi), prive di armonia e ritmo, e ne aveva poi introdotte altre, già meno rudimentali, in Paraclisul N?sc?toarei de Dumnezeu ['Supplica alla Madre di Dio?']; (Testi romeni antichi 1970: XLVII; Piru 1970: I, 102); per il contenuto d'idee e pensieri si lega invece, a filo doppio, alle meditazioni sui nodi irrisolti della condizione umana che dall'evo antico, attraverso i secoli di mezzo, giungevano fino ai giorni dell'autore e avevano già trovato timida espressione agli albori della lettere romene.
Di conseguenza, appare per molti aspetti una forzatura considerare la fatica di Costin un germoglio esclusivo, sia pure attardato, della visione della vita e dei valori riaffermati dall'Umanesimo, perché l'apertura verso il mondo classico gli deriva anche, e forse anzitutto, da un'altra e ben individuabile fonte, l'istruzione impartita all'epoca della Controriforma dalla Compagnia di Gesù, che plasmava gli intellettuali e formava i ceti dirigenti della Chiesa e dello Stato, dalla Spagna alla Polonia e, più in generale, in quasi tutto il continente europeo (e oltre, nelle lontane Americhe e in Asia). In effetti, la Ratio studiorum dei gesuiti recuperava in pieno la cultura antica, a fini, tuttavia, meramente pragmatici: gli allievi si applicano per raggiungere una puntuale conoscenza degli avvenimenti storico-politici; sono guidati da un metodo che assicuri l'equilibrio personale e, insieme, la capacità di agire con efficacia nel mondo e sul mondo; acquisiscono i fondamenti dell'elo quenza che li rendano, nell'impiego della parola, combattivi e, ove necessario, inflessibili soldati di Cristo.
Durante gli anni di studio in Polonia, nel collegio gesuitico di Bar, dove l'i - deale di cultura era costituito dalla retorica latina, che si nutriva e corroborava con l'apprendimento di teorie filosofiche, grammaticali e poetiche (Sasu 1976: 77), il giovane boiardo moldavo si era accostato ai principi del pensiero umanistico, riflessi attraverso lo specchio distorcente della mentalità barocca, e ne aveva assimilato taluni punti essenziali, primo tra tutti, l'inesausta sete di sapere che lo stimolerà all'elogio della pagina scritta e a un appassionato panegirico della funzione educatrice del libro. E però, smarrito dinanzi alla crudezza dei tempi, non ne aveva condiviso il fiducioso ottimismo sul posto e la funzione dell'uomo nell'universo e si era ripiegato su sé stesso, riscoprendo nell'intimo della coscienza, come tanti altri contemporanei, l'immanenza di una superiore entità sovrannaturale, unico punto fermo nella lancinante consapevolezza dell'instabilità e fugacità dell'esistente. D'altronde, la stessa letteratura polacca, alla quale il giovane studente si era abbeverato per ampliare l'orizzonte culturale, viveva nella seconda metà del XVII secolo una crisi profonda: le suggestioni dell'epoca rinascimentale non si erano eclissate, ma era divenuto sempre più impellente il richiamo delle Sacre Scritture, quantunque i modelli estetici ispiratori fossero ancora quelli dell'antichità classica, accolti per il tramite di poeti e scrittori italiani.
Il tardivo esordio di Costin, che ha legato a caratteri indelebili il proprio nome alla ricca produzione cronachistica del Seicento moldavo, avviene giusto con i versi di Viiata lumii, frutto di una diffusa temperie spirituale, quella barocca, i cui riverberi si sentivano prepotenti nei paesi di maggiore acculturazione. Riservandoci di ritornare nel seguito sui motivi approfonditi e discussi nel poemetto, anticipiamo qui un breve commento delle sue note introduttive, pensate come un manifesto di azione culturale rivolto agli immediati destinatari, i lettori, e a quanti in futuro avessero espresso l'intenzione di cimentarsi nell'agone letterario senza limitazioni di generi, fiduciosi nelle potenzialità di uno strumento linguistico ancora non sedimentato, ancora privo di una strutturazione coerente, è vero, ma già idoneo, in mani esperte, a raggiungere la dignità dell'espressione artistica.
Le finalità di un sognatore come Costin, che scommette sulla nascita e lo sviluppo delle lettere nazionali, si scontrano tuttavia con la dura realtà, con le insormontabili difficoltà dell'ora presente che precludono o, almeno, frenano ogni tentativo in tale direzione. L'epoca in cui è vissuto il colto cronista è segnata da una serie ininterrotta di conflitti che interessano l'Europa orientale e, in modo parti - colare, l'Ucraina, la Valacchia e la Moldavia, obbligate a opporsi sul ca mpo di battaglia e nell'arena diplomatica alle pretese espansionistiche delle grandi potenze - l'impero d'Austria, che riprendeva l'avanzata verso la Penisola balcanica e l'Oriente europeo; la Moscovia, che proseguiva la marcia vittoriosa verso Occidente; la Polonia, che, nonostante le prime avvisaglie dell'incipiente declino, ambiva, da un canto, a espandersi verso est e, dall'altro, a raggiungere il corso del Danubio; l'Impero ottomano, che non aveva ancora affievolito lo slancio di conquista e si accingeva a sferrare l'attacco risolutivo alla Cristianità.
In quegli anni difficili la Moldavia, pedina irrinunciabile nel gioco delle opposte politiche egemoniche, subì reiterate invasioni e devastanti saccheggi. In ag giunta, la nomina dei voivodi, soggetta, come negli altri Stati tributari, all'approvazione della Sublime Porta, era concessa a prezzo d'ingenti regalie che in ultima analisi ricadevano sulle spalle dell'immiserita popolazione. Né era raro che i principi pagassero con il trono o con la testa un contrasto con il sultano: tanto accadde a Miron Barnovski, di cui era braccio destro il padre del cronista, l'etmano Ioan Costin, rinchiuso con tutto il seguito nelle prigioni di Istanbul e scampato, per ragioni rimaste misteriose, alla stessa orribile fine. Non solo. Nella prima metà del Seicento i polacchi s'ingerirono di frequente negli affari interni del debole vicino e ne manovrarono le elezioni dei voivodi, sfruttando il sostegno di una fazione favorevole, capeggiata dagli esponenti delle casate dei Movila e dei Costinesti, quella del nostro Autore1.
Negli anni Cinquanta del secolo, quando le genti ucraine guidate da Bohdan Chmelnycenko intensificarono la lotta di liberazione dal dominio polacco, la Moldavia finì per trovarsi ancora una volta al centro dello scontro. Nel 1650 i cosacchi, forti dell'appoggio dei tatari, la invadono e mettono a ferro e fuoco la stessa Iasi. Annota Costin: "Si au arsu atuncea tot orasul. Unde si unde au ramas cîte o dughenita. Curtea cea domneasca, casele boierilor si tot orasul într-o mica de ceas cenuse au statutu [...]" (Costin 1965: I, 123), talché il voivoda Vasile Lupu è costretto ad abbandonare l'alleanza con la Polonia e a passare dalla loro parte. La situazione peggiora nel corso della guerra turco-polacca, quando la Sublime Porta assicura un concreto aiuto ai cosacchi che, condotti dal nuovo etmano Petro Dorosenko, avevano ripreso la lotta per l'indipendenza. Nel periodo che va dal 1672 al 1676 le truppe ottomane, loro alleate, attraversano ben cinque volte il territorio moldavo per raggiungere i fronti di guerra in Polonia e in Ucraina e poi, fino al 1681, ripercorrono ancora e ancora quel cammino, dirette questa volta contro i cosacchi, che, stretta ora alleanza con la Russia, lottavano per sottrarsi all'ingombrante abbraccio turco. Quando nel 1683, nell'ultimo conato di conquista dell'Occidente, gli ottomani progettano l'attacco finale alla capitale dell'Impero asburgico, coinvolgono i recalcitranti sovrani dei due Principati balcanici e li trascinano in una rovinosa sconfitta.
Gli eserciti uniti della Santa Lega, che avevano conseguito la grande vittoria, non arrestarono l'offensiva: la Moldavia divenne di nuovo terreno di scontri e razzie. E però le truppe cristiane, al comando del valoroso generale Giovanni Sobieski, l'eroe della vittoria di Vienna, furono fermate, tanto che i polacchi si decisero per un conflitto di posizione, fortificandosi in alcuni centri moldavi del nord-est, mentre sugli altri fronti l'avanzata delle armate cristiane conduceva nel 1686 alla liberazione di Buda e, dopo la vittoria di Móhacz dell'anno seguente, alla conquista di Belgrado (1688), altro caposaldo del dominio turco nei Balcani. Dopo la rotta di Szlánkemen (1691) e la morte sul campo di battaglia dello stesso gran visir Zadek Mustafà Köprülü, parve per qualche tempo che gli eserciti turchi riprendessero l'iniziativa, ma la disfatta di Senta, sulle rive del Tibisco, condusse agli accordi di Carlowitz (1699), prodromo eloquente della decadenza politica e militare dell'Impero ottomano.
Non erano tuttavia le sole contingenze estere ad aggravare le condizioni economiche e sociali dei Principati romeni, già appesantite dalle crescenti imposizioni della Porta, che alla metà del secolo toccarono livelli insostenibili. La sete di potere dei magnati più ambiziosi attizzava sul piano interno disordini e conflitti, che non soltanto rendevano sempre più precaria la vita della popolazione, ma sollecitavano e accrescevano al contempo le mire egemoniche e gli appetiti espansionistici delle grandi potenze, offrendo comodi pretesti per interventi armati. Nel periodo che va dal 1601 al 1688 si susseguì sul trono dei due Stati balcanici una sfilza di sovrani, venticinque in Valacchia e addirittura quarantadue in Moldavia (Castellan 2011: 75-76), spesso coinvolti in sanguinosi rivolgimenti, assieme ai loro grandi elettori - di volta in volta, i Movila, i Balica, i Costinesti, gli Ureche, i Ruset (Rosetti o Cuparesti), i Cantemir, che il potere centrale non riusciva più a contrastare e contenere. Sulla base dei ricordi personali2, delle ricerche effettuate sul campo3 e delle testimonianze dei contemporanei più anziani che li avevano patiti o ne erano stati testimoni oculari4, Costin rievoca quei tempi orribili in Letopisetul Tarîi Moldovei de la Aaron-Vod? încoace, de unde este p?r?sit de Urechi vornicul ['Cronaca della Moldavia dai tempi di Aron Voda in qua, da dove è tralasciata dal governatore Ureche']5, riprendendo appunto la narrazione dal 1595, l'anno in cui Grigore Ureche l'aveva conclusa in Letopisetul Tarii Moldovei ['Cronaca della Moldavia'].
In quel tempestoso frangente s'inquadra e incastra la vicenda umana di Costin, ora prospera, ora incerta, infine tragica, vissuta tutta a cavallo di due Stati, il principato di Moldavia e il regno di Polonia6. Miron era ancora un bimbo in fasce quando la sua famiglia fu costretta ad abbandonare la patria e a rifugiarsi oltre confine, allo scopo di sfuggire all'ira e alla vendetta di Abbas pascià, che aveva subodorato un inganno nei pretesti addotti dal voivoda moldavo Moise Movila e dal suo etmano Ioan Costin per sottrarsi a una spedizione militare in territorio polacco. In ricompensa dei servigi resi la Dieta del vicino paese nel 1638 conferisce all'illustre immigrato e ai suoi figli maschi l'indigenato, ossia la piena cittadinanza, e un titolo nobiliare trasmissibile.
Nella terra che l'aveva accolto con tanta generosità, Miron frequenta il collegio di Bar, la cittadella che la regina Bona Sforza aveva voluto sulle rive del fiume Rov, dandole un nome che richiamava la sua patria d'adozione, Bari; più tardi, a causa di una delle tante scorrerie cosacche, istituto e allievi furono per alquanto tempo (1648- 1650) trasferiti entro le mura del possente castello di Camenita, l'attuale centro ucraino di Kamjanec-Podil's'ki; alla morte del padre (1650) gli incombe l'onere di occuparsi delle cospicue proprietà immobiliari e fondiarie del casato; l'anno dopo, nei ranghi dell'esercito polacco di Casimiro V, prende parte al vittorioso scontro campale di Beresteczko contro tatari e cosacchi. Nel decennio successivo, grazie alle sperimentate capacità belliche, è chiamato a partecipare alle incursioni di rapina condotte dalle truppe moldave in Valacchia, in Transilvania e nel Banato. Ha così l'occasione di conoscere più da presso i connazionali delle altre formazioni statali e si convince ancor più dell'unità etnica e culturale delle genti romene e delle loro scaturigini latine di cui parlavano apertamente gli storici letti e utilizzati per la redazione delle cronache7. L'approfondita preparazione e le ampie conoscenze linguistiche (oltre alla lingua materna, sapeva il polacco, il russo, l'ucraino, lo slavo ecclesiastico, il greco, il latino, né gli erano estranei i fondamenti del turco e dell'ungherese) gli consentono di svolgere delicati incarichi diplomatici per conto dei sovrani che a ritmo serrato si avvicendavano al potere: è inviato, tra l'altro, nel Principato di Valacchia, alla Sublime Porta e in Polonia, prima al quartier generale di Giovanni Sobieski e poi presso la sua corte, quando il condottiero della lotta antiturca ascese al trono8.
Il matrimonio con Ileana Movil?, nipote del principe Simion Movila, apporta nuova linfa alla posizione sociale e patrimoniale di Costin, che principia e percorre uno straordinario cursus honorum. In pochi anni dalle cariche di sulger, dignitario incaricato degli approvvigionamenti della corte e dell'esercito, di mare paharnic, cioè gran coppiere, e di p?rcalab di Hotin, ossia comandante militare della città, perviene alle più alte dignità statali: mare comis, prefetto di corte, mare dvornic, governatore, prima della Tara de Sus [Moldavia Superiore], poi della Tara de Jos [Moldavia Inferiore], le due ripartizioni in cui si suddivideva all'epoca il Principato, e, infine, mare logofat, gran cancelliere, il più immediato e stretto collaboratore del voivoda9.
Nel 1683 partecipa all'assedio di Vienna con le truppe moldave, coinvolte forzosamente, come quelle valacche, nell'estremo tentativo ottomano di conquista della capitale asburgica, ma cade prigioniero dei polacchi assieme al suo principe, Gheorghe Duca: questi è privato del trono, mentre a lui, che poteva contare sulla stima e l'amicizia di Giovanni III Sobieski, è garantita per un certo tempo una confortevole permanenza nel castello reale di caccia di Daszow, dove porta a termine la stesura di Historya polskimi rytmami o Woloskiey ziemi i Moltanskiey ['Storia in versi polacchi della Moldavia e della Muntenia'], opera nota con il titolo di Poema polon? ['Poema polacco'], che dedica al generoso sovrano. Sempre in quella lingua slava redasse più tardi la Chronika ziem Moldawskich y Multanskich ['Cronaca della Moldavia e della Muntenia'], la cosiddetta Cronica polon? ['Cronaca polacca'], indirizzata a un amico, con ogni probabilità, Marek Matczynski, influente dignitario alla corte di Varsavia10.
Le strofe di Poema polona hanno assicurato a Costin un posto, ancorché minore, nella storia della cultura letteraria della Rzeczpospolita: già nel 1820 fu incluso nel dizionario dei poeti pubblicato da Hieronym Juszynski, che definiva il genere dell'opera "wiersz heroiczny" [verso eroico] (Juszynski 1820: I, 206) e l'inseriva nell'ampia fioritura barocca dei poemi eroico-cavallereschi polacchi, segnati tutti da reminiscenze tassiane o, meglio, tasso-kochanowskiane (Marinelli 1996: 155), come quelli di Samuel Twardowski (Wojna chocinska ['La guerra di Hotin'] e Wojna domova z kazaki i tatary ['La guerra patria con i cosacchi e i tatari']); nei primi decenni del Novecento due storici della letteratura polacca, Aleksander Brückner (Brückner 1908: 317) e Gabrjel Korbut (Korbut 1929: 570) non tralasciarono nelle rispettive trattazioni una breve ma lusinghiera menzione della sua creazione epica.
Con la redazione di Poema polona Costin si prefigge anzitutto di argomentare le nobili origini delle genti romene, discendenti dagli antichi conquistatori della Dacia, e di esporne le vicende storiche, in forma succinta ma potenziata dal ritmo coinvolgente della poesia. Fonti primarie della narrazione sono, per l'epoca antica, Origines et occasus Transsylvanorum di Toppeltin, che Costin cita spesso a memoria, i dieci libri dell'opera De rebus gestis Alexandri Magni dello storico latino Quinto Curzio Rufo, la grande Storia romana del greco Dione Cassio Cocceiano, che, sull'esempio di Toppeltin, denomina Vita Traiani, il Breviarium ab urbe condita di Eutropio, erroneamente chiamato Vita Adriani, e una raccolta greca di storia romana nella quale i dati fantasiosi e inaffidabili, come la campagna militare condotta da Traiano oltre il Don e nelle terre di Battriana, Egitto e Persia, prevalevano su quelli reali (Panaitescu 1965: I, 309).
In appendice al poema (Costin 1965: I, 267-269) sono aggiunti brevi cenni sull'organizzazione della Chiesa ortodossa moldava, retta dal metropolita di Suceava e suddivisa in tre eparchie (Roman, R adauti, Husi), e di quella cattolica, che contava la sola diocesi di Bacau. Il discorso si volge poi alla struttura politica e amministrativa della Moldavia, con l'indicazione di titoli e funzioni dei dignitari che partecipano ai lavori del consiglio segreto e di quelli che ne sono esclusi. Infine, sono elencate le province, comprese quelle occupate dall'invasore turco. Tutte queste notizie delineano per il sovrano polacco un quadro della situazione interna della Moldavia, funzionale a un suo auspicato intervento militare che ponesse fine alla lunga soggezione alla Sublime Porta e le restituisse sul piano internazionale la dignità perduta.
Nella dedica lo scrittore accenna, per una retorica espressione di modestia, a presunte lacune dello strumento linguistico, smentite tuttavia dalla raffinatezza e dall'eleganza formale del testo:
Wstydam sie Muzy mojej Sarmackiéj przed Najjasniejszym i niezwyciezonym majestatem Waszéj Króljewskjéj Mosci Pana mego milosciwego, nie z tego, zeby ona nie miala zdolac najwiekszym materjom i najsubtelniejszym genijuszom, ale z mego w jezyku tym niedostatku (Rogalski 1861: I, 759)11,
e poco oltre, sicuramente per ingraziarsi Giovanni Sobieski, antepone il polacco, distinto da un ricco bagaglio lessicale, allo stesso latino, punteggiato, a suo giudizio, da un numero esorbitante di prestiti greci, mentre la lingua degli antichi slavi disponeva di termini autoctoni, molti dei quali passati in polacco. Così, osserva Costin, se i romani impiegavano i grecismi philosophia e theologia, gli antenati degli slavi dicevano lubomudrie e bogoslovie, mentre i connazionali del sovrano potevano ricorrere a voci corradicali, lubomudrosc e bogoslowstwo (Costin 1965: I, 241)12.
Le due opere di Costin (ma il discorso può valere anche per le sue cronache e, in certa misura, per Viiata lumii) appaiono frutto di un peculiare momento storico, segnato dalle proficue relazioni politiche, religiose e letterarie della Moldavia con la Polonia (e, attraverso questa, con l'Occidente cattolico), che accostarono gli intellettuali locali ai valori dell'Umanesimo e della classicità, un momento breve, perché interrotto ben presto dalla ripresa dell'influenza russa e dell'ortodossia bizantina, ma ricco di indubbi risultati culturali (Windisch 2009: 192).
Al mutare delle condizioni di vita in terra straniera (il cronista Neculce parla addirittura di uno stato d'indigenza), Costin accoglie l'invito del nuovo sovrano moldavo, Constantin Cantemir, e nel 1685 ritorna in patria. All'inizio il voivoda si mostra oltremodo generoso con i Costinesti: accorda titoli nobiliari e incarichi di rilievo ai maschi della famiglia, decide il fidanzamento della figlia Safta con uno di loro e destina lo scrittore alla più alta funzione amministrativa della città di Putna13, ma più tardi, nel 1690, avendo sottoscritto un trattato segreto con il governo di Vienna che prevedeva l'indipendenza della Moldavia tanto dalla Sublime Porta, quanto dalla Polonia, entra in rotta di collisione con il suo dignitario, di cui conosceva i sentimenti filo-polacchi. Con intimidazioni e minacce lo costringe ad accettare la repentina svolta in politica estera, ma già l'anno seguente, per gli intrighi e le delazioni della casata rivale dei Ruset, ordina l'esecuzione di due fratelli Costin: Velicico, che, spinto dall'ambizione, aveva realmente tramato contro il sovrano, è decapitato a Iasi, e la medesima sorte attende poco dopo l'incolpevole Miron, arrestato mentre vegliava la consorte sul letto di morte e giustiziato, nonostante le proteste d'innocenza, nei pressi della città di Roman14.
Si chiudeva così, nella maniera più funesta, la travagliata vicenda personale di Costin, che non poteva non rifrangersi sulla sua opera, in cui s'impone tra i motivi costanti l'amara meditazione sulla caducità dei tempi, avvelenati da ininterrotti conflitti, da interminabili lotte intestine, da scontri sanguinosi tra i pretendenti al trono e alle più alte cariche dello Stato. Tutti i letterati moldavi dell'epoca definiscono con analogia di termini la grave congiuntura storica delle terre romene e, in particolare, del loro paese. Nella prefazione al lettore della raccolta agiografica in quattro volumi Vietile sfintilor ['Le vite dei santi'], apparsa a Iasi tra il 1682 e il 1686, il metropolita Dosoftei ricorre all'aggettivo greu (= duro): "?ntr-atîta lunga vreame scriind si talmacind cîte am putut birui în acest veac grei a tarîi [il corsivo è nostro. N. d. A.] - abiia cu mult greu am scris si aceasta sv[î]nta carte, de o am talmacit rumâneaste pre limba prosta" (apud Rosetti, Cazacu, Onu 1971: I, 134). Descrizioni ancora più nitide e pregnanti della situazione s'incontrano in Letopisetul Tarii Moldovei [...] di Neculce, cronista che si distingue dai colleghi del secolo per la cura formale dell'ordito letterario, come dimostra, tra l'altro, il racconto dell'assassinio di Costin. Quando si sofferma sulle difficoltà della torbida epoca, "vreme tulburat?" (Neculce 2001: 357) o compiange lo stato miserevole della Valacchia e della Moldavia, afflitte dall'oppressore, l'autore reitera un aggettivo, cumplit (= terribile, orribile), che era stato caro a Costin: "Oh, oh, oh! vai, vai, vai di tara! Ce vremi cumplite au agiunsu si la ce cumpana au cadzut!" (Neculce 2001: 304) e addossa le responsabilità delle tristi condizioni ai vertici politici dei due Principati, bollati con una dura rampogna:
Oh, oh, oh! saraca Tara Moldov? si Tara Munteneasca, cum va pitrecitî si va dezmierdatî cu aceste suparari, la acesti vremi cumplite, si far' de mila de stapânii nostri, care singuri noi t-am poftit si t-am aflatu! (Neculce 2001: 336).
In Costin l'epoca difficile delle terre romene è più di frequente indicata con quell'epiteto15, utilizzato nell'incipit del poema ("A lumii cîntu cu jale cumplita viiata"; Costin 1967: 162)16, ripreso nel corso dei versi ("[...] Trec toate pravalite / Lucrurile lumii, si mai mult cumplite"; Costin 1967: 163) e reiterato nel tessuto delle cronache per definire l'azione di taluni sovrani, come Aaron Voda17 e Ion Voda18, o per caratterizzare lo svolgimento dei fatti politici19. Il rinvio alla gravità dei tempi, definiti con l'aggettivo niesczesliwy [= infelice, sventurato], si ripete anche nella chiusa della già menzionata epistola a un amico polacco:
Racz ze te WM. M. M. Pan malo przysluge zawdzecznie przyiac oraz et autorem w laske y patrocinium swoie odebrawszy, coby comissum w polsczyznie przebaczyc, daruiac to niesczesliwym naszym czasom teraznieyszym.
WM. M. M. Pana dozywotnie zyczliwy przyaciel y sluga,
Miron Kostyn (apud Bogdan 1968: 408)20.
Ben più. Il cronista moldavo, attanagliato da un cupo pessimismo, arriva finanche a presagire che l'eterno consiglio di Dio abbia stabilito un limite e un termine per la misera nazione moldava ("[...] cu aceasta fagaduinta ca si létopiset întrég sa astepti de la noi de om avea dzile si nu va hi pus preavécinicul sfat puternicului Dumnedz?u t?rîi acestiia tenchi? si soroc de sfîrsire"; Costin 1965: I, 5), tanto da non nutrire più alcuna speranza per la sua terra, giunta ormai sul baratro dell'imminente rovina:
Nime dar? s? nu vinuiasc? sfaturile de acmu. Vedzi ce gresele s -au f?cut la cei vestiti svétnici. Si acela lucru era în putére a face, iar? vrémile de acmu nu sîntu în putére, si nici un sfat nu încape la greu ca acesta, f?r? de m?rturiia c? este sosit? perirea (Costin 1965: I, 138).
La sinistra previsione è ripetuta in toni ancora più espliciti nelle pagine introduttive di Cronica polon?:
Eu m-am str?duit mult întru aceasta, în aceste vremi, care, dup? cum vedem, sînt ultimele ale noastre, si fie c? poporul moldovean va citi mai întîi cronica mea, sau mai întîi va pieri [...] (Costin 1965: I, 218)
e in Poema polon?: "Dar cine ne -o va înapoia? Dumnezeul meu, al c?rui gînd e de nep?truns, este înc? oare vreo n?dejde, sau vom pieri acum cu totul?" (Costin 1965: I, 248). In questi casi, però, tanta insistenza, che di certo si fonda su un'analisi obiettiva della situazione interna ed estera della Moldavia, trova anche, a nostro parere, una spiegazione di carattere politico, e cioè la richiesta di un concreto appoggio per la martoriata patria, viste le posizioni di rilievo delle personalità alle quali sono rispettivamente dedicate e rivolte le due opere, il commesso della corona polacca Marek Matczynski e lo stesso sovrano di Varsavia. Esponente di primo piano della fazione polonofila, Costin si premurava con la cronaca di mettere a disposizione degli illustri interlocutori affidabili dati storici e linguistici sull'origine latina delle genti romene e, al tempo stesso, di confutare le calunniose falsità propalate sul loro conto dalla storiografia straniera (e non solo straniera!). Con le strofe del poema, invece, ripercorreva ancora una volta le alterne vicende del popolo romeno, dall'epoca di Traiano a quella presente, e forniva, nella parte conclusiva dell'opera, precise informazioni sulle ripartizioni amministrative del Principato di Moldavia, sulla relativa "tabella dei ranghi", sulle eparchie e le diocesi, che si rivelavano preziose per una conoscenza più minuziosa di uno Stato in cui non una sola volta la Polonia era intervenuta, ingerendosi nella serrata lotta che opponeva il partito dei Movil? e dei Costinesti a quello filo-turco dei Ruset. E quegli interventi esterni rinfocolavano nel cronista la speranza che un giorno l'amata patria sarebbe stata infine liberata dal dominio ottomano.
E però, nonostante le sconfortanti previsioni, proprio il XVII secolo vide in terra romena una rigogliosa fioritura di autori e opere, accompagnata dal graduale abbandono dell'invalsa tradizione slava. Nella capitale della Moldavia fu sistemata, per volere del colto voivoda Vasile Lupu, una prima tipografia, alla quale ne seguirono altre; analoga iniziativa fu promossa dal principe di Valacchia Matei Basarab, munifico protettore delle lettere e delle arti. Nel 1688, dai torchi di una tipografia di Bucarest, uscì, caldeggiata e sostenuta dalla liberalità del principe Serban Cantacuzino, la prima traduzione integrale della Bibbia in romeno, un evento capitale nell'evoluzione della cultura di un paese che ormai si affrancava dall'influenza slava. Giusto a quegli anni risalgono i primi vagiti della poesia in lingua nazionale, ed è lo stesso Costin a gettarne la pietra d'angolo con Viiata lumii; la polemistica confessionale trova allora un iniziatore nella persona del metropolita Varlaam, al quale va il merito di avere scalzato dalla liturgia lo slavone; alle prime esperienze di Ureche nel campo delle cronache seguono le opere di Costin, del suo continuatore Neculce, di Nicolae Costin, di Nicolae Milescu, di vari autori anonimi e, infine, di Dimitrie Cantemir, che rinnovò il genere e conferì ai propri scritti la dignità e il valore scientifico della moderna ricerca storica.
Prima di soffermarci su Viiata lumii ci pare opportuno chiarirne il genere, partendo dall'analisi degli epiteti che nelle pagine di critica e storia letteraria servono solitamente a definirlo. Con riferimento alle finalità e alle idee espresse nei 130 versi, il poema è detto 'filosofico' o di "meditazione filosofica",21 quando non sia caratterizzato sulla base del tema affrontato22 o non sia designato con un'indicazione generica23. In effetti, nel componimento si colloca in primo piano la riflessione sui destini ultimi dell'uomo e dell'universo, permeata da una visione sconfortante della condizione umana, sebbene il ragionamento non s'implichi mai nei lacci di un pessimismo insanabile grazie al profondo afflato spirituale, alle solide certezze di fede, agl'intenti didattici e allo stile sentenzioso24 che all'autore hanno valso la denominazione di novello La Rochefoucauld25 e all'opera piuttosto quella di poema didattico-religioso.
Forse, e i casi non dovettero essere pochi, gli studiosi furono per lungo tempo obbligati a evitare una simile definizione, secondo noi più appropriata, a causa delle avverse e difficili condizioni della società e della cultura romena durante gli anni bui (oltre quaranta) della Repubblica di Romania, popolare prima e socialista poi, benché anche allora non siano mancati spiriti liberi che non si lasciarono condizionare e tentarono di esprimere in autonomia il proprio pensiero. Sia chiaro, il solo aggettivo 'filosofico' è più che adeguato per definire il poema costiniano, ma ne lascia in ombra la volontà edificante che ne costituisce uno degli elementi fondanti26 ; ne sottace l'indirizzo mistico, escatologico, ascetico27, ne ignora, poi, la fragranza biblica28, e trascurare queste ultime peculiarità significa, come annotava Nicolae Cartojan, riferendosi più in generale ai primi secoli della letteratura romena, "a t?ia latura religioas? din istoria literaturii românesti înseamn? a renunta la cunoasterea tr?s?turii celei mai caracteristice din cultura noastr? veche si la una din fetele ei de glorie" (Cartojan 1980: 225).
Ormai sulla soglia dei quarant'anni, Costin si era scontrato, nella realtà quotidiana e nell'azione politico-amministrativa, con le insidie e i pericoli di una grave crisi che coinvolgeva l'Europa intera. Sottratto per l'alta posizione sociale alla vita di stenti cui erano costrette le popolazioni della Moldavia, aveva di contro conosciuto l'insicurezza che angustiava il cuore e la mente dei potenti. Già da bambino avrà sicuramente appreso dell'ora drammatica vissuta dal padre all'indomani del supplizio del suo voivoda che, con il rango di postelnic, di ciambellano cioè, aveva accompagnato sulle rive del Bosforo; avrà sentito dei giorni di trepidazione da lui trascorsi nel buio delle prigioni turche, con l'angoscia di condividere, assieme al numeroso seguito, il destino sventurato del principe; avrà gioito al racconto dell'improvvisa e inspiegabile decisione del sultano, che aveva ordinato l'immediato rilascio del padre e il suo ritorno in patria, lasciando finanche liberi i maggiorenti moldavi di scegliersi il nuovo voivoda29.
A causa delle endemiche rivalità tra le grandi casate di Moldavia, in lotta costante per il trono del Principato o per le posizioni di potere, ancora bambino Miron aveva subito lo sradicamento dal suolo natio per un esilio, sia pure dorato, in terra polacca; nel periodo della formazione scolastica era stato costretto con i compagni di studio ad abbandonare per alcuni anni il collegio di Bar al fine di sfuggire alle frequenti scorrerie dei cosacchi; dopo l'improvvisa morte del padre, che aveva lasciato senza una guida autorevole la famiglia, lo aveva sostituito nella bisogna e ne aveva continuato la linea politica favorevole alla Polonia; appena diciottenne, inquadrato nell'esercito della sua nuova patria, aveva avuto il battesimo del fuoco; era ritornato in Moldavia proprio quando ormai vacillava il ventennale dominio di Vasile Lupu, l'unica parentesi di rigoglio culturale e artistico di quel secolo 'sfrenato' (Onciul 1968: I, 50-51); aveva, infine, percorso tutta la scala dei ranghi, fino a giungerne al vertice.
Lo avevano viepiù convinto della caducità dell'esistenza, soggetta agli impon - derabili capricci della sorte, e lo avevano spinto ad affidare alla pagina scritta il proprio pensiero non soltanto gli alti e i bassi di un percorso umano fuori del comune, ma anche i turbinosi eventi storici, uniti a taluni 'segni' indicatori dell'ira celeste, come un'eclissi parziale di sole:
S-au întunecat soarele într-acel anu, la luna lui iunie, cu mare groaze, cît perise soarele cu putin nu toata lumina, tocma amiadzadzi, si multi oameni, nestiindu a sa feri de o întunecare ca acéia si privindu la soare multu, au pierdut vederea în toata viata lor (Costin 1965: I, 179)
o l'inusitata invasione di cavallette, un autentico flagello per la Podolia, che nelle pagine della cronaca descrive con il piglio affabulatorio dello scaltrito narratore e memorialista più che con la scarna esposizione del compassato cronista:
În loc ni s-au luat soarele de desimea mustelor. Céle ce zbura mai sus, ca de trei sau patru sulite nu era mai sus, iara carile era mai gios, de un stat de om si mai gios zbura de la pamîntu. Urlet, întunecare asupra omului sosindu, sa radica oarece mai sus, iara multe zbura alaturea cu omul, fara siala de sunet, de ceva. Sa radica în sus de la om o bucata mare de ceia poiada, si asea mergea pe deasupra pamîntului, ca de doi coti, pana în trei sulite în sus, tot într -o desime si într-un chip. Un stol tinea un ceas bun si, daca trecea acéla stol, la un ceas si giumatate sosiia altul, si asea, stol dupa stol, cît tinea de la aprîndz? pana în desara (Costin 1965: I, 167).
Non già cronachista ma scrittore sensibile allo spettacolo seducente e talvolta spaventevole della natura che gli serve a sostanziare con maggiore incisività le similitudini, appare Costin in altri passi della rievocazione storica:
Ce cum floarea si pometii si toata verdeata pamîntului stau ovilite de bruma cadzuta peste vréme, si apoi, dupa lina caldura soarelui, vinu iara la hirea si la frîmsetele sale céle împiedecate de raceala brumei, asea si tara, dupa greutatile ce era la Radul-voda (care vacurilor de miratu au ramas cum au putut încapea întru întelepciunea acelui domnu acéia nemila de tara), au venitu fara zabava tara la hirea sa, si pana la anul s-au împlutu de tot bivsugul si s-au împlut de oameni (Costin 1965: I, 71-72),
e ancora:
Precum muntii cei înalti si malurile céle înalte, cîndu sa naruiescu de vreo parte, pre cît sintu mai înalti, pre atîta si durît facu mai mare, cîndu sa pornescu si copacii cei înalti, mai mare sunetu fac, cîndu sa oboara, asea si casele céle înalte si întemeiate cu îndelungate vrémi, cu mare razsipa purcegu la cadére cîndu cad. Întracéla chip si casa lui Vasilie-vod?, de atîtea ai întemeiat?, cu mare c?dére si r?zsip? si apoi si la deplin? stîngere au purces de atuncea (Costin 1965: I, 126).
Non meravigli però che l'amara meditazione esistenziale si concreti non tanto nelle cadenze della prosa storica, che pure è intrisa di massime e proverbi30, tutti finalizzati al sostegno di un assunto31, quanto nella forma del verso, perché i collegi gesuitici prevedevano, tra le materie d'insegnamento, l'ars poetica, non limitata in maniera passiva alla lettura e alla disamina dei classici, ma rivissuta personalmente con gli esercizi di composizione che, in consonanza con la generale atmosfera religiosa, si attenevano alle cadenze dell'indirizzo panegirico o moralistico. Le esperienze scolastiche e la volontà gnomica di Costin trovano compiuta espressione proprio in Viiata lumii: il poemetto reca in epigrafe il motto dell'Ecclesiaste "Vanità delle vanità, tutto è vanità"32 che ne suggerisce la valenza spirituale e, in maniera implicita, anticipa le intenzioni didascaliche del pio autore, deciso a creare i presupposti perché la sua fatica letteraria valesse di lezione e ammae stramento.
Al motivo fondante della fragilità dei destini umani33 il testo ne unisce un altro, quello della fuga inarrestabile del tempo, ed entrambi ne vanno a costituire l'ossatura e a sostanziare la trama ideologica, che affonda lontane radici nella poesia lirica dell'antichità classica, ma non riesce, sebbene a sprazzi se ne colgano timidi tentativi, a manifestarsi con le cattivanti movenze di una confessione in grado di parlare al cuore del lettore e di toccarne i sentimenti34, perché l'autore rilegge la materia con l'esasperata tensione della sensibilità barocca o si lascia sopraffare dall'intenzione edificante che sommerge e soffoca l'empito lirico35. Non raggiunge così, ma è solo un esempio, il pathos che Neagoe Basarab aveva saputo infondere a talune pagine di Înv?t?turile c?tre fiul s?u Teodosie ['Precetti al figlio suo Teodosio'] (Piru 1970: I, 44).
Costin, che nel vorticoso agitarsi di protagonisti e comprimari della storia, smaniosi di potere e gloria, percepisce la fragilità delle conquiste umane e coglie in ogni accadimento lo scorrere vertiginoso del tempo e l'ombra latente della morte, si abbandona a sconfortate ponderazioni. Incapace di offrire risposte convincenti alle tante domande sulla condizione umana, si rifugia in sé stesso e affida alla pagina scritta presentimenti e paure. Non riesce a sollevarsi alle dimensioni dell'arte, non per la chiusura ai fatti di poesia, perché più tardi, nella composizione di Poema polona, manifesterà innegabili capacità e talento, ma per la novità dell'impresa, quella di piegare la lingua romena alle esigenze di un discorso poetico compiuto. In ogni caso, il tentativo non scade mai nella mortificante pania dell'esercizio retorico e, sull'abbrivio di un'ampia messe di suggestioni letterarie, sa trovare saldi agganci con la complessa realtà storica e sociale del Seicento moldavo ed esprimere in pieno lo stato d'animo dell'autore, che poi è quello dell'uomo comune del tempo.
Durante il lungo soggiorno in Polonia Costin era entrato in diretto contatto con un mondo culturale e letterario in cui alitavano i fermenti della mentalità barocca, radicati tanto nella creazione poetica in polacco, quanto nei frutti singolari dell'adaptatio gesuitica in latino (Marinelli 1996: 150). Conoscitore di entrambe le lingue, ne aveva accolto contenuti e forme attraverso le opere di Kasper Miaskowski, di Zbigniew Morsztyn e di altri ancora, respirando quell'aura che prendeva ad avvolgere anche le terre romene e che avrebbe trovato più esplicita espressione nelle lettere del secolo seguente (Mazilu 1976: 233-236). I temi peculiari della nuova visione del mondo (l'incostanza delle sorti umane, il trascorrere irreversibile del tempo, l'apparenza delle cose, la vita intesa come sogno, la brevità dell'esistenza umana, l'assillo della morte) si coagulano nei versi del poema, condotto a termine, con ogni probabilità, prima del 1673, com'è possibile evincere dalle parole della prefazione, laddove è precisato uno degli scopi dell'ingrata fatica - introdurre nelle lettere romene un genere nuovo, quello poetico. Il termine ad quem nasce da un dato di fatto incontrovertibile: a parte le già citate prove di Varlaam, nessuna forma regola re di poesia colta era apparsa in terra romena prima di quell'anno, quando Dosoftei aveva affidato ai torchi la stampa di Psaltirea în versuri ['Salterio in versi '], opera ispirata e influenzata dalla parafrasi che del libro dei Salmi aveva dato, con esiti di molto più felici, Jan Kochanowski, il massimo poeta del Cinquecento polacco.
Per inciso, giusto nella raccolta di Dosoftei furono compresi due componimenti in versi di Costin, gli unici stampati in sua vita. Il primo, intitolato Apostrof ['Apostrofe']36, è una pressante esortazione morale e religiosa rivolta all'uomo perché, in pace con sé e con gli altri, non si lasci condizionare dai beni materiali, ma dischiuda, con alacre impegno, tutto il proprio essere a quelli spirituali e si elevi fino alla dimensione del Divino: "Iara-ntr-a carui sufletu Domnulu lacuieste, / Acela de nemica nu mai jeluieste. / Pentr-acéia totu omulu sa nu sa leneasca, / Pre Dumnedzeu în sufletu sa-si agonisasca" (Costin 1965: II, 123).
L'altro, preceduto dall'indicazione in slavone del nome (Miron) e della carica (governatore della Tara-de-Jos) dell'autore, tocca la questione che maggiormente lo intrigava e l'appassionava, l'origine latina delle genti romene - valacchi, moldavi e transilvani:
Neamulu T?rîi Moldovii de unde d?radz?? / Din tara Italiei, tot omul s? creadz?. / Fliah înt?i, apoi Traianu au adus pre acice / Pre str?mosi cestoru t?ri de neamu cu ferice. / R?s?dit-au t?rîloru hotarele toate (Costin 1965: II, 122).
In risposta alla domanda del primo verso si sviluppa quella tesi, argomentata con il rinvio a dati archeologici (ruderi di monumenti, edifici, ponti e torri difensive)37, che testimoniavano dell'imponente attività edilizia avviata dagli antichi conquistatori della Dacia. Un secolo prima del sistematico impegno della Scuola latinista di Transilvania Costin afferma la latinità del popolo romeno, la supporta con attestazioni di carattere anche linguistico38, entra in accesa polemica con quegli storici locali e stranieri che non soltanto disconoscevano tale verità di fatto, ma denigravano i moldavi con speciose congetture e infamanti calunnie. E, quel che è ancora più considerevole per l'epoca in cui visse, sostiene con fermezza l'unità etnica delle genti romene, ancora disperse in distinte e spesso ostili formazioni statali.
Questi versi mancano però da tutte le raccolte pervenute dei manoscritti costiniani39, forse perché contenevano un dato storico in seguito confutato e ripudiato dallo stesso cronista, come ipotizza l'editore delle sue opere (Panaitescu 1965: II, 192), quello che voleva il console Marco Quinto Flacco al comando delle legioni romane conquistatrici della Dacia e metteva in relazione con il suo nome l'etnonimo 'valacchi'. L'informazione, già attestata da fonti storiche medievali [Armbruster 1977: 54], fu divulgata da Enea Silvio Piccolomini, l'umanista che sarebbe divenuto pontefice con il nome di Pio II, e più tardi ripresa tanto da Ureche, quanto da Costin, sebbene entrambi la considerassero alla stregua di un mito fondativo. Più tardi il nostro Autore non solo se ne discostò nettamente, quando "all'auctoritas piccolominiana oppose un ragionamento filologico: l'affinità per lui evidente tra il pol. Valah 'Rumeno' e Voloh 'Italiano'" (Stabile 2010: 19), ma compì addirittura una sorta di damnatio memoriæ di quel condottiero, tanto da espungerne il nome in Stihuri de desc?lecatul t?rîi ['Versi sulla colonizzazione del paese'], il componimento che, in veste ridotta e modificata rispetto a quello stampato nell'opera di Dosoftei, aggiunse subito dopo la prefazione a Letopisetul Tarîi Moldovei [...] : qui il testo conta in tutto sei versi appetto ai ventidue della redazione precedente, e il terzo verso non menziona più Flacco, ma il solo Traiano: "Traian întîiu, împ?ratul, supuindu pre dahii" (Costin 1965: I, 5).
Costin apre Viiata lumii con un breve proemio inteso ad anticipare, come nelle creazioni dell'epica classica, la materia che sarebbe stata trattata nel procedere dei versi e già anticipata nel motto iniziale dell'Ecclesiaste: "A lumii cîntu cu jale cumplita viiata, / Cu griji si primejdii cum iaste si ata: / Prea suptire si-n scurta vreme traitoare. / O, lume hicleana, lume însalatoare!" (Costin 1967: 162). Dedica il corpo del poema alla discussione teorica dell'assunto, fondandola in gran par te sulle enunciazioni scritturali, lo allarga poi a un ret orico compianto, che riprende nella strutturazione e, spesse volte, nell'esemplificazione un motivo correlato alla trama fondamentale - quello dell'Ubi sunt?- già noto ai secoli antichi e prediletto in epoca medievale, e lo chiude infine con un epilogo, in cui convergono e trovano un punto di equilibrio pensiero raziocinante e istanze religiose.
Il tema centrale, quello de fuga temporum, presente nelle dottrine filosofiche e nelle lettere sin dalla classicità greca e latina, fu in epoca barocca rinvigorito dall'intuizione cinematica dell'universo che connotava la percezione del reale. Sostenuta spesso e argomentata con il ricorso a casi storici di valenza paradigmatica, l'i dea dell'incostanza del destino diviene elemento imprescindibile delle lettere e delle arti. Le certezze ontologiche del pensiero rinascimentale si svigoriscono e vacillano dinanzi alla labilità di tutte le manifestazioni della vita umana che sembrano incrinare il principio stesso di sostanza. Il repertorio simbolico dell'epoca potenzia un'immagine cardine, la ruota in vorticoso e incessante movimento, che meglio di ogni altra incarna e rende il senso dell'inarrestabile divenire e dell'incessante trasformazione insiti nell'essere e nella materia.
L'iconografia orientale aveva assunto la ruota a emblema del susseguirsi ininterrotto delle nascite e delle morti, del mutamento, inavvertito e continuo, che condiziona e regola ogni sostanza. La prassi dell'età barocca sottrae all'immagine la consistenza spirituale e l'eleva a referente immediato che valga a suggerire in maniera intuitiva la mutevolezza delle vicende umane. In Costin quel simbolo è diretto a instillare nel lettore il significato che si era cristallizzato in epoca medievale, a indicare, cioè, l'imponderabile e spesso capriccioso alternarsi di eventi imprevedibili, dinanzi ai quali l'uomo, quasi paralizzato, si arrende e confessa la propria impotenza.
Accade così sia nell'ordito del poema: "Trece veacul desfrînatu, trec ani cu roata" (Costin 1967: 163); "Cauta la ce l-au adus înselatoarea roata" (Costin 1967: 165), sia nella narrazione delle cronache: "Iara roata lumii nu asea cum gîndeste omul, ce în cursul sau sa întoarce" (Costin 1965: I, 100); "cauta la ce aduce roata lumii mare case, ca ce poate fi mai greu decît acestea? Dzicu ca nice moartea" (Costin 1965: I, 169), a riprova che la raffigurazione non era passata attraverso il filtro della speculazione filosofica del Rinascimento, quando da indicatore di una ciclicità ininterrotta che rappresentasse in maniera concreta l'ascesa e il declino insiti nell'esistente, fossero i singoli individui o gli imperi, aveva assunto il significato di un completo rinnovamento, di una renovatio ab imis di tutte le cose (Niccoli 2001: 103). Era allora entrata in concorrenza con un'altra immagine, quella della donna in equilibrio instabile su una ruota in vorticoso movimento, il viso rivolto all'indietro e i capelli sciolti al vento, la Fortuna con il ciuffo, la Fortuna occasio, rappresentazione dinamica dell'evenienza irrinunciabile che l'uomo in pieno possesso delle virtù, intese in senso classico (volontà e capacità di intervento, prontezza di decisione, sprezzo del pericolo), può e deve cogliere sul momento, sotto pena di vedersela sfuggire per sempre.
In Viiata lumii l'autore confessa la totale sottomissione dell'uomo al giogo mostruoso e oppressivo del tempo, che lo lusinga, lo illude, lo inganna, lo distrugge infine: "Suptu vreme stam, cu vreme ne mutam viiata, / Umblam dupa a lumii însa - latoare fata" (Costin 1967: 164), e l'amara constatazione, sviluppata e riconfermata dal cronista nelle pagine di Letopisetul Tarîi Moldovei [...]: "Iara nu sintu vrémile supt cîrma omului, ce bietul om supt vrémi" (Costin 1965: I, 138), sarà più tardi ripresa e citata da Emil Mihai Cioran nella Tentation d'exister tra le argomentazioni che ribadiscono l'inutilità e l'inanità di ogni tentativo uomano, destinato a un'esistenza effimera, di opporsi all'azione perenne e dominatrice del tempo (Chelaru 2014: 185-186). A Costin era in effetti rimasto estraneo uno dei moventi rivoluzionari del pensiero rinascimentale, la visione antropocentrica che assegnava nuova dignità all'uomo e lo collocava in primo piano nel cosmo, ritenendolo in grado non soltanto di forgiare il proprio destino, ma finanche di intervenire sulla storia e di modificarla, di operare sulla natura e di manipolarne i fenomeni.
La ronda vorticosa del tempo impronta tutto il poema, e tale motivo è enfatizzato attraverso l'assillante reiterazione di voci che l'esprimano con efficace plasticità. Al verbo a trece, che ritorna ben dodici volte, si aggiungono sinonimi (a fugi), termini corradicali, come l'aggettivo trec?toriu (due occorrenze: "suptu cer trec?toriu", "nu tr?iaste, ce îndat? iaste trec?toare") e locuzioni di significato affine ("si-n scurt? vreme tr?itoare", "nu-i nimica s? stea în veci", "nimica sa stea în veci nu poate", "a tr?i mult nu poate", "toate-s nest?t?toare", "s? nu poat? sta într-un loc nici-odinioare", "s? stea în veci nu o las?"). A ogni passo è ribadito l'incessante processo di trasformazione degli esseri ("murindu ne facem cenusa", "În lut si în cenusa te prefaci, o, oame") e della materia ("În foc te vei schimosi, peminte cu apa"), in un continuo rincorrersi di sostantivi ("Lumea din primenele nu sa mai desteapta") e verbi ("Tu cu vreme toate / primenesti", "Îndelungate împaratii vremea primenéste") che valgano a renderla in modo intuitivo e immediato.
Arricchiscono il testo numerose similitudini e metafore, incentrate su elementi semantici atti a suggerire con vigore espressivo lo stigma della precarietà, quali at? ("ata prea suptire"), umbr? ("Trec zilele ca umbra, ca umbra de vara", "Fug vremile ca umbra"), spum? ("Ca o spuma plutitoare, ramîi fara nume", "toate-s niste spume", "Pre toti i-au stinsu cu vreme, ca pre niste spume"), fum ("fum si umbra sîntu toate"), nor ("Spuma marii si nor suptu cer trecatoriu"), p?ianjen ("painjini sînt anii si zilile noastre"). La critica e la storiografia letterarie hanno ricercato le fonti di queste immagini e ne hanno identificate non poche nelle Sacre Scritture, anzitutto nei Salmi e nell'Ecclesiaste, che peraltro avevano già influenzato i primordi della letteratura romena in slavone, quando si era venuta a instaurare, come in altri ambiti culturali fin dai primi secoli dell'era cristiana, "una relazione biunivoca tra poesia e Bibbia" (Stella 2010: 500), che non soltanto condizionerà nel profondo dell'ispirazione le opere di Varlaam e di Dosoftei, ma si imporrà anche nella poetica di Mihai Eminescu (Gherman 2004: 173-174). Questa stretta connessione con l'eredità dell'Antico Testamento non connaturava solamente gli ingenui vagiti letterari in terra romena, ma coinvolgeva anche altri aspetti della vita sociale. Valga un solo esempio. Nel gennaio del 1628, redigendo un atto per la chiesa del monastero di Hangu, nella vallata della Bistrita, un anonimo copista, in chiusura del documento, si lascia andare a brevi considerazioni sulla provvisorietà della gloria e sull'immanenza della morte, in cui si affollano immagini e metafore bibliche, le medesime di Viiata lumii - il fiore destinato ad avvizzire, l'uomo che passa come ombra (Urechia 1885: 127).
Di fatto, le pagine della Bibbia brulicano di figure retoriche fondate, in un rapporto di affinità e somiglianza, sull'accostamento di concetti e fatti a voci come 'ombra'40, 'schiuma'41, 'fumo'42, 'nuvola'43, che Costin, da devoto lettore delle pagine testamentarie, apprezza e, da poeta e scrittore, ampiamente sfrutta. Non le riprende dalla Vulgata, né ricorre a uno dei tanti repertori di citazioni bibliche che circolavano in epoca medievale, come quello di cui qualche anno dopo si avvarrà Dimitrie Cantemir per il bilingue Divanul sau gâlceava înteleptului cu lumea sau giudetul sufletului cu trupul [Il Divano, ovvero disputa del saggio con il mondo o giudizio dell'anima con il corpo]44, ma si serve di traduzioni in slavone, non essendo ancora uscita dai torchi la Bibbia di Bucarest.
È in particolare il Salterio davidico a ispirare la composizione di Viiata lumii , come avverte l'autore nella sezione di commento, laddove osserva: "Din toate stihurile sa înteleg desartarile, si nestatatoare lucrurile lumii, si viiata omeneasca scurta, cu marturie din David prorocul, mai ales" (Costin 1967: 168). Il nome del profeta ricorre nel testo stesso, quando se ne parafrasa lo stralcio di un salmo: "Zice David prorocul: 'Viata iaste floare, / Nu traiaste, ce îndata iaste trecatoare'". / "Viiarme sîntu eu, si nu om", tot acela striga" (Costin 1967: 165), e precisamente quello segnato dal numero 22, nel quale si racchiude tutto il senso della pochezza dell'esistenza: "Ma io sono un verme e non un uomo, l'infamia degli uomini, e il disprezzato dal popolo" (Salmi 22:6-8). Parimenti notabile è l'influsso sulla composizione del poema delle "parole dell'Ecclesiaste, figlio di Davide, re di Gerusalemme". Se il testo sacro, meditando sulla vanità delle cose umane, concludeva: "Per tutto c'è il suo tempo, c'è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo" (Ecclesiaste 3:1), l'autore di Viiata lumii scorgeva nella loro finitezza il pollice dell'Onnipotente che tanto aveva decretato fin dall'eternità dei tempi ("ca Dumnezeu au vîrstat toate cu sorocul"; Costin 1967: 163).
Vista poi la formazione scolastica di Costin, educato in un collegio gesuitico dove materia di studio era il greco e lingua di relazione il latino, sono state compiute ricerche anche nell'ambito del mondo classico e della latinità medievale e sono state rinvenute innegabili analogie con la grande poesia dell'antica Roma. Di Virgilio: "Sed fugit interea, fugit irreparabile tempus, / singula dum capti circumvectamur amore" (Georgiche: III, 284-285); di Orazio, che medita sulla fuga del tempo in vari momenti, anzitutto nell'ode n. 14 del Libro secondo: "Eheu fugaces, Postume, Postume / labuntur anni nec pietas moram / rugis et instanti senectæ / adferet indomitæque morti" (Carmina: II, 14) e in altre due del Libro primo, segnate dai numeri 9 e 11, nella quale risuona il celebre carpe diem, non tanto un edonistico invito a godere dell'ora presente, quanto un'esplicita esortazione ad astrarsi dalle cose del mondo, unica via per la consapevole conquista della felicità.
Ancora più consistenti appaiono le reminiscenze della poesia di Ovidio45 nei versi del poema romeno, che si apre con un'immagine ripresa dall'epistola Ad ingratum, quella del tenue filo reggente tutte le cose umane: "Omnia sunt hominum tenui pendentia filo: / et subito casu, quæ valuere, ruunt" ( Epistulæ ex Ponto: IV, 3, 35), che svolge, come i versi del poeta latino, il topos dell'azione distruttrice del tempo: "Tempus edax rerum, tuque, invidiosa vetustas / omnia destruitis vitiataque dentibus ævi / paulatim lenta consumitis omnia morte" (Metamorfosi: XV, 234- 236); che definisce con similarità di termini il carattere essenziale della Fortuna: "Haec dea non stabili quam sit levis orbe fatetur, / quae summum dubio sub pede semper habet. / Quolibet est folio, quavis incertior aura. / Par illi levitas, improbe, sola tua est" (Epistulæ ex Ponto: IV, 3, 31-34) e che, infine, insiste, come già nei Tristia, sull'instabilità di quella dea mendace e ingannatrice, sempre pronta a cambiare di passo e ad abbattere chi aveva innalzato: "Passibus ambiguis Fortuna volubilis errat / Et manet in nullo certa tenaxque loco" (Tristia: V, 8, 15-16).
Sul medesimo argomento del trascorrere inesorabile del tempo si esprimerà, sul finire del secolo seguente, il primo autentico poeta romeno, Ion Budai-Deleanu, che si porrà, tuttavia, agli antipodi della visione pessimistica di Viiata lumii. L'autore della Tiganiada ['Zingareide'] fa suo l'invito oraziano, accoglie la sollecitazione di Lorenzo de' Medici a non lasciarsi sfuggire le gioie dei giorni più vitali, quelli della giovinezza, dischiude per un attimo il verso alla struggente malinconia di Pierre de Ronsard:
Sa iubim dar si noi pâna în fata / Rumeioara sângele ne joaca, / Pâna avem o logodnica soata, / Pân-înca n-ajungem la soroaca, / Ca vârsta scapata, vremea zboara, / Nice mai întoarce -a doao oara (Budai-Deleanu 2011: 88),
ma la bandisce subito e vi insinua note di ilare giocosità, quando contrappone l'impeto di impulsi e passioni degli ardenti anni giovanili alla greve incapacità della spenta vecchiaia, lacerata da tosse, mal d'ossa e fiacchezza di membra:
Sa iubim! pâna în tinere vine / Sângele salta si sa ravarsa; / Sa iubim pân-a iubi ne vine, / Racorind inima de dor arsa, / Ca nu cumva apoi, odinioara, / Cum ca n -am iubit rau sa ne para // (Budai-Deleanu 2011: 89),
perché il poeta romeno si confronta con i grandi problemi dell'esistenza non dall'alto di rigide convinzioni religiose o etiche, ma sulla scorta di un'accettazione stoica della realtà, non priva di un senso dell'umorismo che lo induce a sorridere di sé stesso, prima ancora che degli altri (Senatore 2015: XXXI-XXXII).
Spigolando tra la prosa degli autori antichi si colgono notazioni sulle sorti dell'uomo dalle quali traspare la palese vicinanza con le formulazioni di Viiata lumii. Così, nel proemio della Storie, quando parla del declino di talune città greche e dell'ascesa di altre, Erodoto si dice "consapevole che la felicità umana non resta mai ferma nello stesso luogo" (Storie: I, 5), e Costin ne riprende alla lettera il concetto quando canta "Norocul la un loc nu sta, într-un ceas schimba pasul" (Costin 1967: 164) e "Ca Dumnezeu au vîrstat toate cu sorocul, / Au poruncit u la un loc sa nu stea norocul" (Costin 1967: 164). Né la diversità dei termini, 'felicità' nello storico, 'fortuna' nel cronachista, costituisce un ostacolo a tale identificazione, perché negli autori dello spazio culturale greco, come del resto in tutte le lingue indoeuropee, la voce che indica la felicità ha mantenuto uno stretto legame con quella che designa la fortuna (si pensi solamente alla loro coincidenza nel tedesco Glück e nel latino felicitas); si è, cioè, conservata in entrambe "l'idea che la felicità sia una questione di fortuna e di destino e che pertanto non dipende da noi" (Minois 2010: 51).
Alcune delle formulazioni di Costin si rinvengono in Sallustio: "Postremo corporis et fortunæ bonorum ut initium, sic finis est; omniaque orta occidunt, et aucta senescunt" (Bellum Iugurthinum: 2) e, soprattutto, in Seneca, presente nelle biblioteche di tutti i collegi gesuitici, sia con le opere filosofiche, ricche di austera saggezza, concentrata sovente nel volgere breve di una sentenza: "Ita est: nihil perpetuum, pauca diuturna sunt; aliud alio modo fragile est; rerum exitus variantur, ceterum quidquid coepit et desinet" (De consolatione: I,1); "Omnia humana brevia et caduca sunt et infiniti temporis nullam partem occupantia" (De consolatione: XX, 8); "Urbes constituit ætas, hora dissolvit. Momento fit cinis, diu silva" (Naturales quæstiones: III, 27, 2), sia con quelle teatrali, la cui trama tocca l'acme della tensione drammatica proprio con la rappresentazione della rovinosa caduta dei potenti: "Quidquid in altum Fortuna tulit, / ruitura levat" (Agamemnon: I, 101-102).
Questi rinvii alla Fortuna nel dipanarsi fausto o infausto delle vicende umane intridono molte delle opere della letteratura latina: 60 sono nell'Eneide le occorrenze del termine, 117 nella poesia di Ovidio, 73 nelle tragedie di Seneca e ben 144 nel Bellum civile, la Pharsalia, del nipote di quest'ultimo, Marco Anneo Lucano (Canter 1922: 82). Anche gli autori cristiani, in primo luogo Lattanzio, non lesinano sdegnate invettive contro le malefatte di quella dea potente, ma incostante e iniqua:
O Fortuna potens, ac nimium leuis, / Tantum iuris atrox, quæ tibi vindicas, / Evertisque bonos, erigis improbos, / Nec servare potes muneribus fidem. / Fortuna immeritos auget honoribus: / Fortuna innocuos cladibus adficit ( Poetæ latini minores MDCCLXXXII: 386-387)46.
Anche nei versi di Viiata lumii domina il gioco mutevole della Fortuna che ricolma di illusioni gli uomini, si compiace talora di elevarli a posizioni eminenti, ma è ancora più rapida nell'abbatterli e sprofondarli negli abissi della rovina e della disperazione: "Norocului i-au pus nume cei batrîni din lume, / Elu-i cela ce pre multi cu amar sa afume. / El sue, el coboara, el viiata rumpe, / Cu sotiia sa, vremea, toatele surpe" (Costin 1967: 164); campeggia il Tempo che dà principio agli imperi della Terra e ne decreta, con fredda determinazione, la fine: "Vremea începe tarile, vremea le sfîrsaste, / Îndelungate împaratii vremea primenéste. / Vremea petrece toate; nici o împaratie / Sa stea în veci nu o lasa, nici o avutie / A trai mult nu poate [...]" (Costin 1967: 164-165); si staglia il Mondo ingordo che va a caccia con un sacco e stermina tutti, anziani e giovani, senza distinzione:
Nimenea nu-i bun la lume, tuturor cu moarte / Pl?teste osteneala, nedireapt? foarte, / Pre toti si nevinovati, ea le tae vacul. / O, vr?jmas?, hiclean?, tu vinezi cu sacul, / Pre toti îi duci la moarte, pre multi f?r? deal?, / Pre multi si f?r? vreme duci la aceasta cale (Costin 1967: 166);
si profila la Morte inesorabile che calpesta le casupole dei poveri e le dimore dei ricchi, pareggiando le schiere degli umani, senza discrimine di censo o di rango, di bellezza o di prestanza: "Moartea, vr?jmasa, într-un chip calc? toate cas?. / Domnesti si-mp?resti, pre nime nu las?, / Pre bogati si s?raci, cei frumosi si tare" (Costin 1967: 166), quasi a ricordare l'analoga immagine tratteggiata da Orazio nei Carmina, la pallida morte che bussa con piede imparziale a tuguri e palazzi reali: "Pallida mors æquo pulsat pede pauperum tabernas / Regumque turres. O beate Sexti, / Vitæ summa brevis spem nos vetat inchoare longam" (Carmina: 1, 4, 13-15).
Già in molti passi della narrazione cronachistica l'ombra minacciosa della morte incombe tanto sulla miserevole popolazione, sottomessa all'arbitrio dei potenti, quanto sul capo di sovrani, pretendenti alla corona, boiardi, protagonisti e vittime del convulso dipanarsi della lotta politica. Sulla falsariga di una rilettura cristiana della vicenda umana e nella cornice della visione barocca del mondo, quella presenza ossessiva connatura i versi di Viiata lumii. Il testo gronda di immagini funeree, rese tangibili e attuali con il ricorso a un adeguato bagaglio lessicale, dove si reiterano termini legati al concetto di fine47 e di rovina48. La Fortuna, il Tempo e il Mondo, ecco la triade devastante che, in una con l'ancella Morte, svolge un'inesorabile funzione di flagello e di devastazione nella storia dell'umanità e si guadagna la parte di nefasta protagonista nei versi del poemetto romeno: "Vremea lumii sotie si norocul alta, El a sui, el a surpa, iarasi gata" (Costin 1967: 165).
Il momento ineluttabile della resa dei conti non attende i soli nati da uomo, ma è segnato dall'Onnipotente per tutto l'universo dei mondi, roso come da un tarlo interiore, l'angosciante presentimento della fine, perché, come osserva Ioana Em. Petrescu:
Lumile lui Costin cunosc o singur? miscare (prezent? mai târziu, ca ipotez? a unei perpetue agonii cosmice, si-n eminesciana Memento mori): curgerea, rostogolirea spre h?uri, n?ruirea în moarte (Petrescu 2002: 59).
E su questo aspetto spinge il pedale anche Manolescu, quando riprende e integra le conclusioni di altri storici e critici letterari, caratterizzando così l'essenza del poema 'lirico-filosofico' di Costin:
Toti comentatorii au constatat in Viiata lumii [...] vizionarismul moral, privirea amar? aruncat? deopotriv? asupra cosului si asupra istoriei umane de c?tre un spirit pr?p?stios si escatologic, care simte pretutindeni fragilitatea, instabilitatea si agonicul, exprimându-se în stilul plastic si transant al patimilor crestine (acelasi de la Ivireanul), anticipând gnomismul din eminesciana Gloss? (Manolescu 2008: 29).
Al pari degli astri del cielo che si spegneranno e precipiteranno dal firmamento, il mondo è, dunque, destinato a perire tra vampate di fiamme distruggitrici, nell'apocalittica visione della fine dei tempi:
Ceriul faptu de Dumnezeu cu putere mare, / Minunata zidire, si el fîrsit are. / Si voi, lumini de aur, soarile si luna, / Întuneca -veti lumini, veti da gios cununa. / Voi, stele iscusite, ceriului podoba, / Va asteapta groaznica trîmbita si doba. / În foc te vei schimosi, peminte, cu apa (Costin 1967: 163-164).
Al fine di rappresentare in maniera più immediata e plastica il rapido trascorrere dell'uomo sul proscenio del mondo Costin ricorre all'abusata formula dell'Ubi sunt? che in terreno culturale romeno era già stata ripresa, tra gli altri, da Neagoe Basarab nei suoi ammaestramenti al figlio49, composti in slavone nell'alveo di una lunga tradizione parenetica che affondava le radici nelle lettere bizantine (pensiamo in particolare agli scritti di Basilio I il Macedone e di Costantino Porfirogenito) e che in area slava trovava un più immediato riferimento nel testamento spirituale rivolto ai figli dal principe di Kiev Vladimir Monomach, il Poucen'e [Insegnamento]. Nel mezzo dell'opera il voivoda valacco, colto dall'empito lirico, compiange con efficacia e nitore di immagini lo sfiorire e il decomporsi della bellezza femminile:
Unde iaste acum frumusetea obrazului? Iat?, s-au negrit. Unde iaste rumeneala fetei si buzele cele rosii? Iat?, s-au vestejit. Unde iaste clipeala ochilor si vederilor tale? Iat?, se topir?. Unde iaste p?rul cel frumos si piept?nat? Iat?, au c?zut. Unde sînt grumazii cei nétezi? Iat?, s-au frînt. Unde iaste limba cea repede si deslusit?? Iat?, au t?cut. Unde sînt mînele cele albe si frumoase? Iat?, s -au deznodat... (Basarab 2001: 126).
Un compianto espresso meno di un secolo prima da François Villon nelle strofe nostalgiche della Ballade des dames du temps jadis che sfociavano nello struggente interrogativo del celebre ritornello "Mais où sont les neiges d'antan?"
L'autore di Viiata lumii ricorre a tale formula retorica già presente nelle opere dei Padri della Chiesa, in particolare in quelle di Giovanni Crisostomo50, che attraverso la mediazione bizantino-slava erano confluite in terra romena e ne avevano influenzato la scrittura letteraria. Su quel topos, divenuto un luogo comune nelle letterature d'Europa in epoca medievale51, s'incardina un non breve squarcio del poema, dove sono passati in rassegna illustri personaggi della storia universale:
[...] Unde-s cei din lume / Mari împarati si vestiti? Acu de-abiia nume / Le-au ramas de poveste. Ei sîntu cu primejdii / Trecuti. Cine ai lumii sa lasa nadejdii? / Unde-s ai lumii împarati, unde iaste Xerxes, / Alixandru Machidon, unde-i Artaxers, / Avgust, Pompeiu si Chesar? Ei au luat lume, / Pre toti i-au stinsu cu vreme, ca pre niste spume (Costin 1967: 165).
Il motivo era talvolta concorrente con un'altra interrogazione retorica, quella dell'Ubi nunc? che esprimeva un senso di pungente derisione delle realizzazioni umane, destinate a essere cancellate dalla faccia della Terra. Proprio il già citato Piccolomini, che contribuì a diffondere negli ambienti intellettuali, e a confermarla grazie all'innegabile autorità di brillante umanista, la teoria dell'origine latina del popolo romeno (Armbruster 1977: 52), ne farà il punto centrale di una delle tante orazioni, quella intitolata De Constantinopolitana clade et bello contra Turcos congregando, finalizzata a raccogliere le forze cristiane per una novella crociata, questa volta con un diverso obiettivo, l'esecrando nemico ottomano:
O nobilis Græcia ecce nunc tuum finem, nunc demum mortua es? Heu quot olim urbes fama rebusque potentes sunt extinctæ. Ubi nunc Thebæ, ubi Athenæ, ubi Mycenæ, ubi Larissa, ubi Lacædæmon, ubi Corinthiorum civitas, ubi alia memoranda oppida, quorum si muros quæras, nec ruinas invenias? (Piccolomini MDCCLV: 268).
Riannoda il componimento romeno alla mentalità barocca anche il non raro rifrangersi di antitesi, apertamente formulate o appena suggerite52, quel mezzo stilistico fondato sull'accostamento di unità semantiche contrapposte che in Costin non prende le mosse dalla volontà di stupire il lettore con un ricercato gioco retorico, ma sgorga naturale dall'analisi del mondo reale53. In fondo, tutto il canovaccio del poema è imbastito sull'opposizione tra la vita e la morte, che trova incisiva espressione in versi come "Nastem, murim, o data cu cei ce sa trece" (Costin 1967: 166); "Nascîndu-ne, murim; murind ne facem cenusa" (Costin 1967: 167). Forse, più che di opposizione tra i due principi, si dovrebbe parlare di una sorta di loro consustanzialità, già presagita da scrittori antichi come Marco Manilio ("nascentes morimur, finisque ab origine pendet" (Astronomica: 4, 16) e ossessivamente ripetuta, con finalità meramente esteriori, nel brulichio del concettismo barocco, dalla Polonia all'altro capo del continente europeo, tanto che nel Sueño de la Muerte lo spagnolo Francisco De Quevedo Villagas si esercitava e giocava con accostamenti simili: "y lo que llamays morir, es acabar de morir, y lo que llamays nacer, es empeçar a morir, y lo que llamays viuir, es morir viuendo" (Quevedo Villagas 1628: 73).
Il disfacimento delle membra attanagliate dalla morte, già descritto da Giovanni Crisostomo nelle pagine del Trattato a Teodoro:
Che cosa ne è stato del corpo che godeva di tanta cura e igiene? Recati presso la tomba, osserva la polvere, la cenere, i vermi, il fetore di tutto il resto: osserva e gemi amaramente (Giovanni Crisostomo 2004: 74)
e raffigurato in tanti affreschi e bassorilievi medievali, si conquista, con toni simili, il primo piano nell'epilogo di Viiata lumii: "În lut si în cenusa te prefaci, o, oame, / În viiarme, dupa care te afli în putoare" (Costin 1967: 167).
Il poema si riscatta, tuttavia, per un duplice ordine di motivi da conclusioni a tinte fosche e pessimistiche, perché l'autore appare, anzitutto, convinto che sia possibile sfuggire all'infelicità, tenendosi lontano dalle cure del mondo: "Vietuiti în ferice, carii mai putine / Griji purtati de-a lumii; voi lacuiti bine" (Costin 1967: 167) e improntando la propria condotta ai dettami dell'unico antidoto contro gli affanni dell'esistenza, la ragione, che ammonisce a procedere, nelle res secundæ, con circospezione, senza illudersi sulla continuità del momento propizio, e sprona a porsi, in quelle adversæ, all'ostinata ricerca di un sia pur lieve spiraglio di luce nelle tenebre della realtà contingente, senza smarrirsi d'animo: "Nime lucruri pre voe de tot sa nu creaza, / Nime-n grele, nadejdea de tot sa nu piarza" (Costin 1967: 165).
Richiamandosi alla sentenza del Medioevo latino "Quidquid agis, prudenter agas et respice finem"54, una norma di saggezza che affondava le radici nel pensiero biblico e aveva già trovato espressione nei versi ovidiani ( Tristia: I, 4, 55), Costin esorta il lettore a uniformarsi a quel principio:
Orice faci, fa, si cauta fîrsitul cum vine. / Cine nu-l socoteste, nu petrece bine. / Fîrsitul ori lauda, ori face ocara, Multe începaturi dulci, fîrsituri amara. / Fîrsitul cine cauta vine la marire; / Fapta nesocotita aduce perire (Costin 1967: 166),
a non riporre eccessiva fiducia nell'intrecciarsi favorevole delle circostanze, a tenere sempre presenti l'inconoscibilità e l'imprevedibilità degli eventi:
Nestiutoare firea omeneasc? de lucruri ce vor fie pre urm?. Ce pentru un lucru sau doa? pre voie ce i s? prilejescu, bietul om purcede desfrînatu si începe lucruri peste puterea sa si apoi acolo g?seste perirea (Costin 1965: I, 12) .
In secondo luogo, alla luce della visione cristiana del mondo che gli è congeniale, nel distico conclusivo del poema addita la possibilità di riscatto e di conquista della vita eterna, fosse pure grazie a una sola opera buona: " Una fapta, ceti ramîne, buna, te lateste, / În ceriu cu fericie în veci te mareste" (Costin 1967: 167), una sola tra le tante che i predicatori della Compagnia di Gesù indicavano ai fedeli, in unione con il timore di Dio, negli accesi sermoni e negli scritti di devozione55.
Il tradizionale sistema del sacro, che aveva subito sostanziali incrinature nelle speculazioni dei pensatori rinascimentali, rimane dunque saldo nella mente e nelle realizzazioni poetiche di Costin56, tutte ispirate dai testi canonici del cristianesimo, dalla Bibbia alla Patristica, quando non se ne configurino per ampi stralci come vere e proprie parafrasi. È, a esempio, il caso del componimento Stihuri împotriva zavistei [Versi contro l'invidia], che si fonda quasi per intero sulla parola della Sacre Scritture57 :
"Zavistnicului ieste acesta norocul, / Gîtlanul lor, mormîntul destupat cum casca. / Limbile loru gata tot sa ocarasca. / Sa le fii giudet, Doamne, din gînduri sa caza, / Ocari care facu ei pre sine sa vaza" (Costin 1965: II, 120).
E però lo scrittore palesa altrove, nel tessuto delle cronache, la capacità di af - francarsi dalla soggezione acritica alle istanze della fede, quando, nell'esposizione dei fatti storici, approva l'azione di quei sovrani che, guidati anzitutto dalla scaltrezza politica, non ne erano stati condizionati e avevano in tal modo evitato più gravi danni al proprio paese. Lo attestava il caso del voivoda Gaspar Graziani, criticato per altri motivi58, ma elogiato per l'accorta ed equilibrata politica estera che aveva risparmiato alla Moldavia ulteriori lutti e rovine:
De lauda este hie la care domnu sa hie spre partea crestineasca, ca aceasta tara caci traieste asea în statul sau pana acmu, pentru tari crestine sta pana astadzi în rîndurile sale, însa cu întelepciune, nu fara socoteala si fara temeiu, în loc de folosul tarîi sa-i aduca pierire, cum sau prilejitu amu si în vremile noastre în cîteva rînduri, de adusésa a multi nesocoteala si nebunia, mare cumpana acestui pamînt? (Costin 1965: I, 37).
L'ordito degli scritti di Costin è caratterizzato da frequenti pause di riflessione sui nodi irrisolti della condizione umana, nelle quali il pensiero si condensa nella brevità di una massima. Questo voluto tono aforistico e didascalico, che ne costituisce l'originalità rispetto all'opera della gran parte dei cronachisti moldavi e valacchi59, assume maggiore rilievo e incisività nell'ampia e variegata trama di Letopisetul T?rîi Moldovei [...] , narrazione storica e, insieme, lezione di vita. Il modello seguito sono i versi di Viiata lumii, un autentico scrigno sapienziale per l'uomo che nel mondo vive e si agita. Già nella prefazione al poema l'autore annotava: "cum iaste de lunecoasa si putina viiata noastra si supusa pururea pri mejdiilor si primenelilor" (Costin 1967: 160) e nel testo sentenziava: "Norocul la un loc nu sta, într-un ceas schimba pasul" (Costin 1967: 164); "nici o avutie / A trai mult nu poate" (Costin 1967: 165), "Nu-i nimica sa stea în veci, toate trece / lumea; Toate-s nestatatoare, toate-s niste spume" (Costin 1967: 165), ma è nel corso della cronaca che dischiude ancora più volentieri il discorso a wellerismi, aforismi e proverbi, a volte di derivazione popolare, altre volte di ascendenza biblica e, in casi più ristretti, riferibili a testi letterari antichi o moderni: "Bine dzice sfînta Evanghelie: 'Cu ce masura masuri, masura-ti-sa-va'" (Costin 1965: I, 14); "Banii rascolesc? împaratiile si mare cetati le surupa, cum sa dzice cu un cuvînt? lesesc?: Sula de auru zidiul patrunde" (Costin 1965: I, 23); "Ce, precum dzice Isus Sirah: 'Vai de acéie cetate unde este domnul tînar?'" (Costin 1965: I, 25); "Ce binele pururea este gingas, si pentru pacatele oamenilor nu în multa vréme statatoriu" (Costin 1965: I, 73); "O! nestatatoare si niceodata încredintate lucrurile a lumii, cum vîrsteadza toate si turbura si face lucruri împrotiva! Cînd? cu cale sa fie frica celor? mai mici de c ei mai mari, iara cursul lumii aduce de este de multe ori celui mai mare de cei mici grije" (Costin 1965: I, 78); "Fericiti sînt? împaratii, craii, domnii, carii domnesc? asea, sa le hie de cei mai mici niciodata siiala" (Costin 1965: I, 78); "Nestiutor gîndul omenescu singur de sine la ce merge si la ce tîmpl?ri apoi soseste" (Costin 1965: I,. 80); "Si bine au dzis unul: 'Bella momentis constant', adeca 'Razboaiele în clipala ochiului stau'" (Costin 1965: I, 100); "Pentru acéia bine dzice un dascal: 'Si qui sunt in superiore valetudinis grada, dum in eodem permanere non possunt, cadunt in deterius', adeca 'Céia ce sint? în scara vîrtutii acea mai de sus, neputînd? a sta tot într-acéle stepene, cad foarte la mare slabiciune'" (Costin 1965: I, 113); "Sérpele, pana nu ridica capul din iarba sa-l lovesti" (Costin 1965: I, 118); "Orbu narocul la suis si lunecos a stare la un loc, grabnicu si de sîrg pornitoriu la coborîs" (Costin 1965: I, 177); "Iara nestatatoare si lunecoase hirile omenesti! La greu si la nevoie cinesi de sine sa stea, si apoi si cela, si celalaltu mai lesne pieru!" (Costin 1965: I, 184).
(segue nel prossimo numero)
Miron Costin's Poem The Life of the World, a Mirror and Voice of a Dark Age (I)
The major writer of seventeenth-century Moldovan chronicles, Miron Costin inaugurated his literary career with the poem The Life of the World, composed prior to 1673. A successful synthesis of the immutable values of classical culture and the spiritual needs of a troubled century, the work was a near-absolute novelty in the literary scene of the time with respect to its genre; as for its ideological contents, on the other hand, it was concerned with the unsolved issues on the human condition authors had been trying to tackle since classical Greek and Roman times through the Middle Ages and up to the author's days, where they had found a timid expression in the early days of Romanian literature. Costin's use of the verse can be explained in the light of his education at a Polish Jesuit college, where, among other subjects, ars poetica was taught. This was not simply studied by passively reading and analysing the poetry of Greek and Latin classics, but was personally revitalized through practical composition exercises. Interestingly, Costin felt the need to accompany his work with an introduction expounding the reasons for such a choice as well as illustrating the versification technique adopted; in order to do this, Costin adjusted the short essay's contents - the first ever to have addressed issues in metrics, prosody, and literary theory in the Romanian culture - to the level of its potential readers' cultural background.
The author's school experience, as well as his didactic intentions, found thus expression in The Life of the World, which reflects the reality of seventeenth-century Moldova, where the socio-economic conditions, already weighed down by the tax imposed by the Sublime Porte, were getting worse due to the struggle for power between the most ambitious exponents of the great aristocratic families, when the Country became a land of conquest for hegemonic powers - i.e. Poland, Tsarist Russia, and the Ottoman Empire. The tone of poem was made even gloomier by the poet's personal life, as he had known not only the splendor of his social position (Costin held important diplomatic posts and had a brilliant career in the civil service), but also the dangers of the battlefield, the sadness of exile, and the poison of political struggle.
1 L'antica casata dei Costinesti è ritenuta di origini serbe da Dimitrie Cantemir (Cantemir 1973: 280), ma Octav-George Lecca, citando anche un passo di Hronicul românilor si a mai multor neamuri ['Cronaca dei romeni e di molti altri popoli'] di Gheorghe Sincai, non accetta questa tesi e ritiene che l'attributo di 'Sârbi' le derivi piuttosto dall'omonimo villaggio, una delle sue proprietà latifondiarie in terra moldava (Lecca 2000: 239). Va comunque osservato che rinvia al mondo slavo l'onomastica di taluni membri della famiglia - i nomi stessi di Miron o di Velicico, per esempio.
2 Proprio la partecipazione diretta agli eventi gli permette, osserva il cronista stesso, di narrarli più agevolmente e, aggiungiamo noi, con maggiore cognizione di causa: "Asea si noao, iubite cetitoriule, cu mult? mai lesne a ne scrie de acéste vrémi, în care mai la toate ne-am prilejit singuri [...]" (Costin 1965: I, 135).
3 Non per niente, con un'espressione volutamente anacronistica ma calzante, Nicolae Manolescu lo definiva "primul nostru reporter de r?zboi" (Manolescu 2008: 60).
4 Allievo dei gesuiti, che attribuivano una funzione preminente al senso della vista rispetto a quello dell'udito, peculiare della religiosità luterana, tutta incentrata sull'ascolto delle pagine bibliche e sulla predicazione del pastore, Costin privilegia, nella ricerca della verità storica, la testimonianza di quanti avessero partecipato agli eventi o seguito de visu lo svolgersi delle vicende. E le ragioni di tale preferenza sono esposte e argomentate in un passo del Letopisetul T?rîi Moldovei [...]:
Den cinci simtiri ce are omul, anume vedérea, audzul, mirosul, gustul si pipaitul, mai adevarat? de toate simtiri ieste vedérea. Ca pren audz?, cîte aude omul, nu sa poate asedza deplin gîndul, este asea ce sa aude, au nu este, caci nu toate sintu adevarate cate vin pren audzul nostru. Asea si mirosul, de multe ori însala, fiind? multe mirodenii dentîiu gréle, iara apoi mare si iscusit miros facu. Gustul înca este asea, ca multe ne paru ca sint? dulci, apoi simtimu amaraciune si împotriva, multe amare ca sintu ne paru si sintu dulci. Pipaitul, iara si multe pipaim în chip de une si sîntu altele, si nu le putém a le cunoaste cu singur pipaitul, fara vedére. Iara vedérea singura den toate asadza în-adevar gîndul nostru, si ce sa véde cu ochii nu încape sa hie îndoiala în cunostinta (Costin 1965: I, 135).
5 Osserva in proposito Eugen Negrici: "Perioada asupra c?reia se apleac? Miron Costin este suprasaturat? de evenimente teribile, de pr?busitoare seisme politice, de personaje istorice fascinante, însotite de cortegii de r?zboaie si orori" (Negrici 1972: 155).
6 Le notizie sulla famiglia dello scrittore sono tratte dal già menzionato studio di Lecca sulle casate aristocratiche di Romania (Lecca 2000: 239-244); i dati biografici sono, invece, desunti dagli studi di Petre P. Panaitescu (Panaitescu 1965: IX-XVII), di Alexandru Piru (Piru 1970, I: 130-133), di Nicolae Cartojan (Cartojan 1980: 282-289) e, soprattutto, dalle cronache dello stesso Costin, da quelle del figlio Nicolae (Letopisetul Tarii Moldovei de la zidirea lumii ['Cronaca della Moldavia dalla creazione del mondo']) e di un altro autore, Ion Neculce, che in Letopisetul Tarii Moldovei de la Dabija-Vod? pân? la a doua domnie a lui Constantin Mavrocordat ['Cronaca della Moldavia dai tempi del voivoda Dabija fino al secondo principato di Constantin Mavrocordat'] cita numerose volte il suo predecessore nell'ambito storiografico e nella carica di governatore della Moldavia Superiore, elogiandolo tra l'altro per una schietta e ardita risposta al sultano (Neculce 2001: 46).
7 In primo luogo, Pawe? Piasecki, autore del Chronicon gestorum in Europa singularium , stampato varie volte nel corso del Seicento; Marcin Paszkowski, che tradusse in polacco la Sarmatiæ Europeæ descriptio del veronese Alessandro Guagnini, vissuto a lungo in Polonia e morto a Cracovia nel 1649; Samuel Twardowski, non uno storico, bensì un facitore di celebri poemi eroico-cavallereschi, di cui avremo ancora modo di parlare, e il sassone di Transilvania Lorenz Toppeltin di Medias / Medgyes che nell'opera Origines et occasus Transsylvanorum, uscita a Lione nel 1667, aveva sostenuto con passione e densità di prove la discendenza latina del popolo romeno (Panaitescu 1965: 284-285).
8 Esaurienti notizie sull'attività diplomatica del cronista moldavo in Dan Zamfire scu (Zamfirescu 1981: 114-118) e in Dumitru Velciu (Velciu 1995: 22-29).
9 In aggiunta a quelle dello stesso Costin (cfr. infra), utili per conoscere compiti e prerogative dei più alti funzionari dello Stato moldavo sono le informazioni di Lecca (Lecca 2000: 18-23) e, soprattutto, di Velciu (Velciu 1995: 17-18).
10 Pienamente condivisibili appaiono le ragioni che indussero Petre P. Panaitescu a identificare in Matczynski il dedicatario dell'opera (Panaitescu 1965: I, 302-303).
11 ['Mi vergogno della mia Musa sarmatica dinanzi alla Vostra Illustrissima e invitta Maestà reale, mio clemente Signore, non perché la Musa non sia all'altezza della più eletta materia e del più sottile genio, ma per la mia insufficienza in quella lingua'] (La traduzione è nostra. N. d. A.).
12 Il cronista sottaceva tuttavia l'evidente calco dal greco di entrambe le voci.
13 Sulle difficoltà economiche della famiglia di Miron in Polonia e sulla magnanimità di Constantin Cantemir scrive Neculce in Letopisetul T?rii Moldovei [...] , laddove annota:
Vinit-au atunce si Miron logof?tul din Tara Lesasc?, foarte sc?pat, si l-au avut Cantemirvod? în mil? si în cinste. Si avându trii ficiori, i-au boieritu. Pe Ionit? l-au f?cut s?rdariu, pe Nicolai logof?t al triile, pe P?trasco c?m?ras mare. Si s-au logodit Cantemir-vod? si o fat? cu dânsul, pre anume domnita Safta, iar pe Miron logof?tul l-au f?cut staroste la Putna (Neculce 2001: 90).
14 Nella sua cronaca Neculce narra con toni asciutti ma toccanti la morte dello sventurato Costin e, senza molta convinzione, accenna al pentimento del sovrano che quell'esecuzione aveva voluto e ordinato: "Cantemir-vod? dup-acee mult s? c?iè ce-au f?cut si de multe ori plângè între toat? boierimea si bl?st?ma pe cine l-au îndemnat de-au gr?bit de i-au t?iat" (Neculce 2001: 105).
15 Osservava a buon diritto Constantin Ciopraga:
Le siècle suivant [cioè, il XVII. N. d. A.], qui pouvait être celui d'une Renaissance tardive, apparaissait à Costin sous des couleurs sombres, "accablé par de grandes difficultés", de circonstances "terribles". Le sentiment costinien du terrible, contemplé à distance, représente, presque symboliquement pour l'époque respective, une forme de la conscience tragique, dans son impuissance de briser ses limites (Ciopraga 1975: 19).
16 Per il testo di Viata lumii ci siamo avvalsi dell'edizione di Liviu Onu (Costin 1967: 159-169), emendata, come osserva il curatore (Costin 1967: 45), dagli errori e dalle sviste sia dei copisti, sia degli editori moderni. Per le cronache e gli altri scritti abbiamo invece seguito la già citata edizione completa di Petre P. Panaitescu (Costin 1965).
17 "Pana la cumplita domniia lui Aron-voda (asè-i dzice acei domnii rapausatul Uréche-vornicul), ieste scris létopisetul tarîi de Uréche-vornicul [...]" (Costin 1965: I, 5) e ancora: "Domniei lui Aronvoda cu cale i-au dzis ca au fost? cumplita, ca asè au fost?, desfrînata domniia si nediriapta foarte, cît, de raul lui, ce era fruntea boierilor fugisa mai toti în Tara Lesasca" (Costin 1965: I, 6).
18 "Nespusa prada aceasta este tarîi si de prada de la Ion-voda cu putin mai mica (alegînd? de acéste cumplite vrémi de acmu, cu care toate primejdiile acestui pamînt? covîrsite sint?)" (Costin 1965: I, 121-122).
19 "Iara di pe acéle vrémi sa cunoaste paharul lui Dumnedzau aproape de schimbare si curund? spre alte mai cumplite vrémi. Ca era la mare zburdaciune tarîle acéste" (Costin 1965: I, 106); "Si cu vrémile pana aicè istovim o parte de domnie a lui Vasilie-voda, ca pana aicè, pre cît au fost? fericita domniia aceasta, cu atîta mai cumplite vrémi s-au început de atuncè, den care au purces den scadere în scadére aceasta tara pana astadzi" (Costin 1965: I, 110); "[...] de la care vrémi [ossia, dai tempi dell'etmano Bohdan Chmelnycenko. N. d. A.] (ah?!) s-au început si raul nostru, în care pana astadzi ne aflam cu acest? pamînt? la cumplite vrémi, si Dumnedzau stie de nu si peste vacul nostru traitoare" (Costin 1965: I, 110); "Crede neputintii oamenesti, créde valurilor si cumplitelor vrémi, întreaba pe ce vrémi am scris si cît am? scris" (Costin 1965: I, 167).
20 [Binevoieste, bunul meu prieten, a primi cu multumire aceast? mic? lucrare si a p?stra autorului ei favorul si protectia D-tale, iertîndu-i în acelasi timp greselile ce a putut s? fac? în stilul polonesc si atribuindu-le nefericitelor vremuri prin care trecem acum. Al Domniei-Tale pîn? la moarte credincios prieten si slug?. Miron Costin]. La traduzione è di Ioan Bogdan (Bogdan 1968: 408).
21 "Poem? filozofic?" (Cartojan 1980: 312; Piru 1970: I, 134), "poem filozofic pe tema instabilit?tii lucrurilor omenesti" (Tepelea, Bulg?r 1973: 71); "poemul filozofic Viata lumii" (Simonescu 1979: 119; Negrici 1972: 216; Munteanu, David, Oancea, Târa 1978: 52; Vîrjoghe 1991: XIII); "the philosophical poem The life of the world" (Duminica 2013: 409) e in altri saggi e trattazioni di storia linguistica o letteraria. Nel titolo stesso di un articolo pubblicato proprio in un volume collettaneo di studi filosofici, Mona Mamulea definisce l'opera "dintâi poem filosofic din cultura român?" (Mamulea 2007: II, 447) e nel corpo del lavoro ricorre alla definizione equivalente di "cel dintâi poem de meditatie filosofic? din cultura român?" (Mamulea 2007: II, 448). La definizione di "poem de meditatie filozofic?" è adottata anche da Ion Rotaru (Rotaru 1971: I, 36) e da Algeria Simota (Simota 1979: 223).
22 "Meditatia asupra z?d?rniciei vietii" (Dumitrescu-Busulenga 1974: VIII); "o încercare pe tema fortunei labilis" (Tanasescu 1978: 160); "o meditatie pe tema fortuna labilis" (Alexandrescu 2007: 92).
23 "Întîia oper? notabil? a poeziei culte românesti" (Ivascu 1969: I, 185).
24 Tale peculiarità di Viiata lumii è giustamente privilegiata da Mihaela Paraschiv quando lo definisce "poemul gnomic" (Paraschiv 2006-2007: 116).
25 All'autore delle Maximes lo accostava George Ivascu quando osservava:
De la clasici Miron Costin a înv?tat scrutarea moral? a fiintei umane, meditatia grav? asupra naturii si destinului s?u, tendinta de a scoate din faptul de viat? observatia general?, el fiind în cultura român? cel mai eficient sem?n?tor de maxime, La Rochefoucauld al nostru (Ivascu: I, 187).
26 Doppiamente didascalica appare per Negrici l'intenzione dell'autore:
Autorul vrea, pe de-o parte, "sa se vaza ca poate si în limba noastra a fi acest feali de scrisoare ce se chiama stihuri" si, pe de alta, sa sanctioneze setea de glorie - boala feudala greu de tamaduit - în numele smereniei crestine, vechea si statornica lui obsesie (Negrici 2004: 141).
27 L'opera è da Nicolae Cartojan definita "breve poema ascetico" nella voce "Costin, Miron," redatta per l'Enciclopedia italiana (Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti 1931: XI, s. v.).
28 Nella sua vasta storia della letteratura romena, pubblicata nel 1941, Gheorghe C?linescu aveva insistito sull'intonazione religiosa e biblica del poema quando scriveva: "Îns? în Viiata lumii este, dac? nu înalt? poezie, oricum un lirism al desert?ciunii, plin de mireasm? biblic? (dealtfel, dup? anume indicii, de origine popular?)" e precisava: "Adev?rate imagini în stil bisericesc se desf?soar? solemn" (Calinescu 1982: 47); nella voce di un dizionario della letteratura romena lo aveva più tardi caratterizzato semplicemente come "o poem? meditativ?" (Calinescu 2004: II, 401).
29 La nostra reiterazione del futuro epistemico è, naturalmente, retorica, perché il cronista aveva appreso proprio dalle labbra del padre lo svolgersi di quegli eventi che in Letopisetul T?rîi Moldovei [...] rammemora con cadenze drammatiche, non prive di gusto letterario e intenzioni artistiche (Costin 1965: I, 84-86).
30 Il tessuto delle cronache costiniane, dove l'aneddoto alterna con il giudizio morale, appare denso di materiale paremiologico, in parte già attestato in ambito dotto e popolare, in parte nuovo o inusitato, come osserva Vladimir Streinu:
Astfel relieful si densitatea exprimarii lui Miron Costin ne-au furnizat, ca sa zicem asa, un numar de proverbe noi pe lînga cele stiute din popor, un fel de alte zicale provenite de la un autor cunoscut si nu anonim, a caror clasicitate le da în ochii lumii noastre cultivate valoare în adevar paremiologica (Streinu 1967: 1).
31 Che, nella trama complessiva di Letopisetul Tarîi Moldovei [...] , è ancora quello dell'incostante fortuna:
Modelul narativ al cronicii lui Miron Costin este al unei povestiri cu idei, ca o meditatie pe tema fortuna labilis. Prin cele 40 de maxime si aforisme, avem o esentializare a evenimentelor, se exprima ideea ascunsa în povestire. Naratiunea îsi afla punctul de pornire în adevarul maximei. Istoria devine un spectacol tragic, într-un stil preromantic, demn de un povestitor meditativ ca M. Sadoveanu (Alexandrescu 2007: 92).
32 La traduzione del motto biblico in lingua romena è preceduta da quella in slavone (...) con rinvio al primo capitolo dell'Ecclesiaste. Possiamo soltanto ipotizzare le ragioni che spinsero l'autore a mantenere vivo, almeno nella breve sequenza sentenziosa, lo slavo ecclesiastico: voleva forse rendere l'ultimo omaggio a un elemento basilare della tradizione romena antica, e non solo chiesastica, che le riforme del secolo andavano oramai scalzando.
33 Il motivo, uno tra i più diffusi e sviluppati della letteratura universale è stato analizzato da Ramiro Ortiz in una preziosa monografia, ancora oggi punto di partenza per chi voglia occuparsene con ampiezza e puntualità di rinvii (Ortiz 1927).
34 Osserva Constantin Ciopraga: "Dans une méditation, comme Viata lumii (La Vie du Monde), c'est un cérébral qui s'adresse à ses contemporains, peut-être la conscience la plus profonde de son siècle sur le sol roumain" (Ciopraga 1975: 19).
35 Se Calinescu nutriva evidenti dubbi sull'intensità lirica dei versi di Costin: "Abia Miron Costin poate fi socotit ca un liric în întelesul adevarat al cuvîntului" (Calinescu 1982: 47), Negrici indicava proprio negli intenti edificanti e moralistici dell'autore le ragioni che l'avevano smorzata o del tutto impedita:
Intentia poemului Viata lumii este însa didactica; evocarea marilor glorii, pietre în abis, meditatia asupra trecerii si a mortii, care ar fi putut constitui, singure, slobode de constrîngeri, discursul liric, sînt întoarse întru morala, lasa locul unui îndreptar de viata (Negrici 1972: 217).
36 Nell'edizione di Panaitescu l'Apostrof consta di sedici versi, ma, a giudizio di Velciu (Velciu 1995: 62-64), che cita a conferma della propria tesi l'opinione di vari storici e critici della letteratura romena antica, i primi quattro si devono alla penna di Dosoftei. E, in verità, il senso della quartina iniziale non appare coerente con i versi successivi. Va altresì rilevato che Neculai A. Ursu, sulla base di un'attenta analisi linguistica, ne attribuisce per intero la paternità al metropolita (Ursu 1974: 137-152).
37 Adolf Armbruster, profondo conoscitore del problema, dedicava quasi venti pagine all'illustrazione del prezioso contributo arrecato dal cronista moldavo all'affermazione della latinità delle genti romene (Armbruster 1977: 190-208).
38 Benché non taccia l'apporto delle lingue vicine, anzitutto le slave, al fondo lessicale della propria parlata, il cronista riafferma gli stretti legami del "moldavo o romeno" con la lingua madre di Roma e, per argomentare l'assunto, riporta una lista di voci latine (57 sostantivi e 30 verbi) seguite dal corrispondente termine romeno (Costin 1965: I, 231-232). A parte qualche inesattezza di carattere etimologico ('gura' rinvia a 'gula', e non già a 'ora') e qualche intrusione da altri ceppi linguistici ('buza', per esempio, non deriva affatto dall'italiano, bensì dall'albanese 'buzë'), l'elencazione comprova l'ampiezza e la solidità degli interessi costiniani.
39 E il fatto potrebbe essere una conferma indiretta della tesi di Ursu che, anche in questo caso, negava a Costin la paternità del componimento (Ursu 1974: 38 sgg.). Ma si vedano i dubbi e le obiezioni di Velciu (Velciu 1975: 79 sgg.).
40 "I nostri giorni sono sopra la terra come un'ombra, e non vi è speranza alcuna" ( 1Cronache 29:15); "Perché i nostri giorni sono come un'ombra sopra la terra" ( Giobbe 8:9); "E fugge come l'ombra, e non istà fermo" (Giobbe 14:2); "I miei giorni son come l'ombra che dichina" (Salmi 102:11); "Io me ne vo, come l'ombra quando dichina" (Salmi 109:23); "L'uomo è simile a vanità. I suoi giorni sono come l'ombra che passa" (Salmi 144:4); "Perciocché, chi sa qual cosa sia buona all'uomo in questa vita, tutti i giorni della sua vanità, i quali egli passa come un'ombra?" (Ecclesiaste 6:12); "E che bene non sarà all'empio, e ch'egli non prolungherà i suoi giorni, che se ne andranno come l'ombra [...]" (Ecclesiaste 8:13).
41 "Il re di Samaria perirà, come la schiuma in su l'acqua" (Osea 10:7).
42 "Perciocché i miei giorni sono venuti meno come fumo" (Salmi 102:3); "[...] Perciocché i cieli si dissolveranno a guisa di fumo" (Isaia 65:5); "Perciò, saranno come una nuvola mattutina, e come la rugiada che cade la mattina e poi se ne va via; come pula portata via dall'aia da un turbo, e come fumo ch'esce dal fumaiuolo" (Osea 13:3).
43 "E la mia salvezza è passata come una nuvola" (Giobbe 30:15).
44 Con ogni probabilità, il Thesaurus Bibliorum [...] dell'inglese William Allott, uscito ad Anversa nel 1576, che conobbe numerose ristampe e ampia diffusione in tutto il continente europeo.
45 Si vedano, in proposito, lo studio di Nicolae Lascu (Lascu 1941) e quello più recente della classicista romena Mihaela Paraschiv, che coglie le nutrite suggestioni ovidiane nel testo poetico di Costin (Paraschiv 2006-2007).
46 Dopo avere in questi e nei successivi versi delineato la condotta della sfuggente dea, il "Cicerone cristiano" le riserva una serie di epiteti disposti in un crescendo di sempre maggiore negatività - variabilis, inconstans, fragilis, perfida, lubrica (Poetæ latini minores MDCCLXXXII: 386-387).
47 Sono 5 le occorrenze della voce moarte, rispettivamente 3 e 2 quelle dei termini corradicali, il verbo a muri e l'aggettivo muritoriu; 5 le occorrenze del sinonimo [s]fârsit (al quale si aggiunge il verbo della stessa radice a sfârsi); infine, sono almeno 3 quelle del verbo a s? [pe]trece.
48 Sono più di 15 i termini che indicano la distruzione, il declino, la caduta - verbi (a c?lca, a cobori, a rupe, a stinge, a surpa, a t?ia e così via) e sostantivi (c?dere, pierire e ancora altri).
49 Dei quali Ivan il Terribile si attribuì la paternità per attestare la solidità della propria fede ortodossa e la limpidezza della propria dirittura morale quando, nel 1557, sollecitò dal patriarca di Costantinopoli l'investitura imperiale di Russia, come ha scoperto un ventennio fa lo storico Ion Dumitriu-Snagov (Monumenta Romaniæ Vaticana 1996: 13-46).
50 La formula, che in greco assumeva la dizione poù eisín, ripetuta nelle argomentazioni del Trattato a Teodoro:
Dove sono quelli che incedevano nella piazza con molta boria e uno stuolo di accompagnatori, gli uomini vestiti di seta che emanavano profumi, davano da mangiare ai parassiti e si recavano sempre a teat ro? Dove è ora quella loro ostentazione? Se n'è andata. La sontuosità dei pranzi, lo stuolo dei musicisti, l'ossequio degli adulatori, il frequente riso, la rilassatezza del - l'anima, la dispersione dei pensieri, la vita languida, molle, inutile, dove sono ora? Tutto questo è volato via (Giovanni Crisostomo 2004: 74),
era ben nota ai lettori del Medioevo romeno, e lo stesso Costin l'avrà incontrata nell'opera di Neagoe Basarab, nel brano da noi poc'anzi citato.
51 Quella domanda era passata finanche nel corpo di un testo agli antipodi, per contenuto e finalità, delle dolenti considerazioni sulle sorti umane, quel Gaudeamus igitur destinato a diventare, in una delle tante varianti, l'inno della spensierata goliardia germanica: "Ubi sunt qui ante nos in mundo fuere? / Vadite ad superos / transite ad inferos / hos si vis videre" (apud Pastore 2006: 274).
52 "El a sui, el a surpa, iarasi gata" o "El sue, el coboara, el viiata rumpe" ( Costin 1967: 164).
53 Dámaso Alonso annotava a proposito del carattere non artificioso che può assumere tale figura retorica: "La classificazione dicotomica 'per contrari' è continuamente suggerita dalla realtà, è un eterno quadro mentale e direi quasi una categoria speciale della nostra conoscenza: sorge, cioè, costantemente dalla vita stessa" (Alonso 1971: 33).
54 Secondo la tradizione, l'adagio costituiva il nucleo essenziale di una pungente risposta di Solone a Creso, che s'inorgogliva anzitemp o dei propri successi. Attestato nelle favole di Esopo (XXII, 5), era divenuto popolare in epoca medievale, quando fu inserito nella raccolta Gesta Romanorum come la prima delle tre norme di comportamento consigliate da uno scaltro mercante all'imperatore Diocleziano, che l'avrebbe altamente apprezzata (Gesta Romanorum M.D.L.V.: 361-362).
55 Predicava dal pulpito il gesuita Paolo Segneri, contemporaneo del cronista moldavo: "Fa opere di giustizia, di umiltà, di ubbidienza, di misericordia, di purità, di prudenza, di pietà, di fortezza, ed altre infinite: qui timet Dominum, faciet bona" (Segneri M.DCC.XIV.: III, 404).
56 Quando leggiamo: "În realitate ne afl?m în fata unei creatii poetice originale, prima de acest fel în literatura român?, de esent? laic? [...]" (Vîrjoghe 1991: XVIII), concordiamo in pieno sulla sottolineata originalità del poema, ma dissentiamo dall'affermazione della sua "essenza laica".
57 "La loro gola è un sepolcro aperto; / con le loro lingue hanno tramato frode". / "Sotto le loro labbra c'è un veleno di serpenti" (Romani 3:13).
58 Costin non lo ritiene idoneo alla carica di voivoda (ottenuta peraltro con macchinazioni poco limpide) a causa dell'origine straniera, in ogni caso, non italiana, come scrive ("Gaspar-voda era omu de neamul sau italianu, cum dzicemu la noi în tara, frîncu" (Costin 1965: I, 36), bensì croata.
59 Osserva Doina Curtic?peanu:
Spre deosebire de Ureche si Neculce, în scrierile c?rora omul tr?ieste în realitatea imediat?, asaltat de vicisitudini fizice, la Costin el se naste 'în realitatea lui moral?' [il virgolettato è di Tudor Vianu. N. d. A.], cu o acut? constiint? a r?ului pricinuit? de cumplitele vremi (Curticapeanu 1975: 267).
Adriana SENATORE*
* Università degli Studi di Bari "Aldo Moro", Italia.
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Copyright "A. Philippide" Institute of Romanian Philology, "A. Philippide" Cultural Association 2015
Abstract
The major writer of seventeenth-century Moldovan chronicles, Miron Costin inaugurated his literary career with the poem The Life of the World, composed prior to 1673. A successful synthesis of the immutable values of classical culture and the spiritual needs of a troubled century, the work was a near-absolute novelty in the literary scene of the time with respect to its genre; as for its ideological contents, on the other hand, it was concerned with the unsolved issues on the human condition authors had been trying to tackle since classical Greek and Roman times through the Middle Ages and up to the author's days, where they had found a timid expression in the early days of Romanian literature. Costin's use of the verse can be explained in the light of his education at a Polish Jesuit college, where, among other subjects, ars poetica was taught. This was not simply studied by passively reading and analysing the poetry of Greek and Latin classics, but was personally revitalized through practical composition exercises. Interestingly, Costin felt the need to accompany his work with an introduction expounding the reasons for such a choice as well as illustrating the versification technique adopted; in order to do this, Costin adjusted the short essay's contents - the first ever to have addressed issues in metrics, prosody, and literary theory in the Romanian culture - to the level of its potential readers' cultural background. The author's school experience, as well as his didactic intentions, found thus expression in The Life of the World, which reflects the reality of seventeenth-century Moldova, where the socio-economic conditions, already weighed down by the tax imposed by the Sublime Porte, were getting worse due to the struggle for power between the most ambitious exponents of the great aristocratic families, when the Country became a land of conquest for hegemonic powers - i.e. Poland, Tsarist Russia, and the Ottoman Empire. The tone of poem was made even gloomier by the poet's personal life, as he had known not only the splendor of his social position (Costin held important diplomatic posts and had a brilliant career in the civil service), but also the dangers of the battlefield, the sadness of exile, and the poison of political struggle.
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