Non coerceri a máximo, contineri tarnen a mínimo, divinum est.
0.
Lo scandalo di una religione monoteísta (e che perciô si ritiene universale) è quello della differenza1. La dottrina rivelata - sia la rivelazione dettata diret- tamente da Dio o per interposto profeta - non ammette pluralismo: il conflit- to di interpretazioni, se c'è, non si dà tra ermeneutiche egualmente legittime, ma soltanto tra verità ed errore.
Ció vale a maggior ragione nel caso in cui una religione di questo tipo si fondi sul precetto che il logos, fattosi carne, ha assegnato a un gruppo di uomi- ni la fondazione della sua Chiesa. La pretesa universalità di una tale religione deve affrontare fin da subito la contraddizione della storicità di questo evento: dellessere accaduta in un dato luogo e in un dato tempo, con palese esclusione di una umanitá che quel dato luogo e quel dato tempo non ha condiviso.
Si crea una tensione irresolubile tra testo sacro e costruzione del dogma, tra religiosità e religione, tra individuo e ecclesia, tra atemporalitá dell'espe- rienza di fede e storia dell'istituzione. Qui lo scandalo: la dottrina è una sola, derivata senza errore dal testo rivelato, e Listituzione della chiesa, con tutti i necessari corollari dogmatici che essa deve trarre dal testo rivelato - ma che nel testo non sono esplicitamente o coerentemente dichiarati - non puó permettersi né alcuna novità né alcun cambiamento. La teología speculativa (che è scienza di Dio e di quel Testo) deve coincidere con quella positiva (che è scienza dei concili e dei decreti della Chiesa).
Allo stesso modo in cui non sembra possibile che un concilio o un papa sconfessino un loro predecessore, cosí non è possibile che i culti professati dai fedeli nei più diversi o remoti luoghi in cui la religione si è diffusa presentino un grado (pur) mínimo di tollerabile diversitá.
Per il cattolicesimo, il primo tipo di contraddizione è stato superato (a fati- ca e non senza contrasti) nel secolo XIX, con una semplice negazione, ovvero con il concetto di infallibilità, dietro il quale è stato anche possibile offuscare le più evidenti incongruenze. Sul secondo tipo di contraddizione, invece, si è prodotta nel tempo una vera e propria storia interna alla storia più generale del cattolicesimo, generata dagli spostamenti della linea della chiesa tra la po- larità del centro e quella della periferia, tra la linea di Roma e quella adottata nei paesi di missione. Questi spostamenti sono stati sempre provocad dall'ur- genza per i missionari di rendere più efficace la loro azione di proselitismo e di adottare Strategie comunicative più adatte ai popoli da evangelizzare, ed è un'urgenza che in certi casi ha spinto verso una trasformazione tale del culto cristiano da risultare inaccettabile per la cattolicità stessa, difesa da Roma.
Tra i momenti più significativi di questa storia, mérita senz'altro una at- tenzione particolare la stagione aperta dal Concilio Vaticano II, durante lo svolgimento del quale la "periferia" - secondo la ricostruzione di J. W. O'Mal- ley - ha assunto una rilevanza rispetto al "centro" come mai era accaduto in tutta la cosiddetta "época tridentina", e il magistero della Chiesa si è spostato dal giuridicismo di canoni e decreti alio stile pastorale dell'esempio e del pa- negírico2. Con tali coordinate, la linea di tensione tra unità della dottrina e pluralità dei culti accettati ha inevitabilmente curvato verso la differenza, non senza generare tensioni anche di lunga durata.
1.
Inculturazione è un termine emerso nel patrimonio cultúrale della Chiesa cattolica, ed in particolare nell'ambito della Compagnia di Gesú, per esprime- re il rapporte che il Cristianesimo instaura e/o deve instaurare con le culture con cui entra in contatto, e che ha goduto poi di notevole fortuna nell'ambito della catechesi e della dottrina sull'evangelizzazione. Fu infatti formalmente adottato da papa Giovanni Paolo II nella sua esortazione apostólica Catechesi Tradendae nel 1979 e, da allora, è divenuto uno di quegli slogan che si sentono spesso ripetere, ma raramente se ne sono approfonditi il significato storico e il contesto applicativo.
Il primo ad usarlo, per quanto in una accezione genérica, fu Péter Ne- meshegyi durante un incontro della Commissione Teológica internazionale (1972). Lo si sentí ripetere durante il Sínodo sullevangelizzazione (1974); ma il momento in cui veramente è osservabile Lingresso della parola inculturazione nel gergo pastorale della Chiesa è quello della XXXII Congregazione Generale della Compagnia di Gesù (1974), durante la quale venne usato proprio questo termine per rispondere alle sollecitazioni provenienti dalle remote province della Compagnia (si potrebbe dire, per estensione, dalla Chiesa stessa) a dare forma nuova all'evangelizzazione dei popoli, raccogliendo cosi la sfida lancia- ta pochi mesi prima dai padri sinodali.
Nel corso degli ultimi anni la Chiesa ha voluto esprimere piú plenamente la sua cattolicità prestando maggior attenzione alla diversité dei suoi membri. Più che per il passato, essa cerca oggi di assumere l'identité dei gruppi e delle nazioni, e le loro aspirazioni sia a uno sviluppo socio-economico sia a una intelligenza del mistero cristiano, che siano in accordo con la storia e le loro proprie tradizioni3.
Fu la XXXII Congregazione generale a lanciare il tema: per la prima volta nella storia della Compagnia, infatti, il concetto di inculturazione venne fatto oggetto dei lavori di una specifica commissione, dapprima denominata "de indigenizatione", ma poi ragionevolmente cambiata in "de inculturatione". La Commissione lavorô alla stesura di una esplicita dichiarazione a riguardo, ma decise anche di redigere il decreto 5 "La promozione dellopera di incultura- zione della fede e della vita cristiana" demandando al Prepósito generale il compito di dare «ulteriore sviluppo e una piú ampia promozione dell opera di inculturazione in tutta la Compagnia» [Decr. 5, n.2]4.
Ad essere investiti dalTapplicazione del concetto di inculturazione non furono soltanto, per quanto emerge dai lavori della commissione, Tim- maginario esotico o la dimensione "geográfica" del vivere missionario5; la commissione aveva infatti di mira una estensione di questo concetto alla dimensione storica, grazie alia quale fu possibile parlare di «nuova incarna- zione del Vangelo» anche nel mondo Occidentale, divenuto esotico rispetto al Cristianesimo a causa della secolarizzazione e della diffusione delle co- siddette idéologie atee.
La Chiesa sa oggi che il problema della «inculturazione» non si pone soltanto in rapporti ai valori culturali propri a ciascuna nazione, ma anche in rapporta ai valori nuovi e universali che nascono da una comunicazione approfondita e continua tra le nazioni: la Compagnia di Gesù deve rendere il suo servizio alia Chiesa in tale compito di «aggiornamento» o inculturazione del Vangelo in questi nuovi valori di dimensione spirituale6.
Dalla Congregazione generale usciva cosí un'urgenza (tradurre lo spirito concillare di "aggiornamento" in un atteggiamento missionario specifico), ma non una definizione univoca del concetto di inculturazione né, soprattutto, un'indicazione chiara di cosa comportasse una tale definizione per Topera della Compagnia nel mondo. A rispondere a queste esigenze provvide Pedro Arrupe, che diede seguito al decreto 5 redigendo una lettera (14 maggio 1978) proprio sul concetto di inculturazione, divenuta celebre, che liberó di fatto questo tema alla discussione teológica dei successivi venti anni.
In questa, come in altre lettere di Arrupe, è possibile rendersi pienamente conto di quanto questo Prepósito generale sia stato anche uomo di dottrina e speculazione, ben oltre quelTimmagine di "uomo pratico" che ha lungamente affascinato cronisti e storici. Arrupe svolse il tema delTinculturazione avendo bene a mente tre obiettivi precisi: 1) corrispondere a quello spirito di aggior- namento giovanneo che aveva generate tanto entusiasmo nella chiesa e nella Compagnia; 2) corrispondere alla nécessita emersa nel medesimo Concilio di riequilibrare i pesi anche teoretici interni alia chiesa in favore della "periferia" (dove il cattolicesimo ormai era religione più diffusa che non nel primo mon- do); 3) dare un senso nuovo e positivo ad una pratica di "adattamento" del cristianesimo che i Gesuiti avevano adottato fin dalle origini, ma che aveva anche causato loro storici problemi.
Seguiré il ragionamento di Arrupe su questi tre assi significa cercare di dare risposta a tre domande fondamentali anche oggi, e ad un corollario pedago- gico/educativo: Che cosa significa "inculturazione"? Quai è il problema posto alia Chiesa dal concetto di "inculturazione"? Ed, infine: quali sono le ricadute pratiche, sulla vita e Topera del cristiano, del concetto di "inculturazione"?
2.
Inculturazione, nelTuso che ne fece Arrupe, voleva significare qualcosa di diverso da ció che Tantropologia, come disciplina, chiamava allora ac-cultu- ration o en-culturation. Con la prima si designa infatti il processo di incontro e ibridazione tra due culture differenti, incontro reso possibile dai "punti di contatto" che queste hanno in partenza, cioé da ció che esse hanno di comune prima del loro reciproco adeguamento. Con la seconda, invece, si designa il processo di educazione di un individuo da parte del suo ambiente sociale, già dotato di valori condivisi, pratiche, abitudini e costumi, processo che só- litamente coinvolge Tindividuo durante Tinfanzia. Si tratta di ció che in pe- dagogía viene normalmente chiamato educazione infórmale. In-culturazione, secondo Arrupe, vuol invece significare Tincontro del Cristianesimo con le culture, ed in particolare con le culture diverse da quella con cui il Cristiane- simo è stato storicamente più in contatto: la cultura europea.
Inculturazione significa incarnazione della vita e del messaggio cristiano in una concreta area cultúrale, in modo tale che questa esperienza non solo ri- esca a esprimersi con gli dementi propri della cultura in questione (il che sa- rebbe soltanto un adattamento superficiale), ma diventi il principio ispiratore, normativo e unificante, che trasforma e ricrea quella cultura dando origine a una "nuova creazione"7.
Questo incontro è necessariamente asimmetrico, non avviene - secondo Arrupe - cioé alio stesso piano: una cultura è un insieme determinato di nor- me, consuetudini, valori morali - é in sostanza un ethos - che appartiene ad una data societá, in un dato momento del suo esistere. II Cristianesimo é invece anzitutto una religione, una religione che si concepisce come la reli- gione, universale e cioé cattolica: come ha detto fienri De Lubac in Catholici- sme, essa comprende ed abbraccia tutta Tumanitá anche nel momento in cui non si é ancora geográficamente estesa ai popoli di tutto il globo8. È ció che intende Origene quando dice: «Per orbem terrae, ecclesiae latitudo diffusa», esprimendo cioé, come altri Padri della Chiesa, più unesigenza intrínseca che non uno stato di fatto9. La Chiesa comprende ed abbraccia le culture di tutti i popoli, ma non tutto delle culture dei popoli:
l'influsso innovatore e trasformatore dell'esperienza cristiana in una cultura contribuisce, dopo una possibile crisi di confronto, a una nuova coesione di questa cultura. In secondo luogo, aiuta ad assimilare quei valori universali che nessuna cultura è capace di esaurire. Inoltre, invita ad entrare in una nuova e più profonda comunione con altre culture, in quanto tutte sono chiamate a formare, arricchendosi e completandosi mutuamente, un "variopinto tessuto" della realtà cultúrale dell'unico pellegrinante Popolo di Dio10.
Quando Arrupe usa la parola "inculturazione", dunque, sta guardando proprio allasimmetria dell'incontro: se si ponesse sullo stesso piano, il cristia- nesimo sarebbe a sua volta una semplice cultura, e verrebbe cost a coincidere ed esaurirsi con la cultura europeo-occidentale (ed anzi, addirittura solo una parte di essa). L'incontro si trasformerebbe perciô in un mero "adeguamento" del Cristianesimo alia cultura con cui entra in contatto. Perderebbe la sua unità. Il cristianesimo degli africani sarebbe infatti sostanzialmente diverso da quello dei cristiani cinesi, da quello dei cristiani sudamericani e, alla fine, da quello degli europei, cioè da quello di Roma11.
Il cattolicesimo esige unità: e anche nel periodo del concilio Vaticano II, il grado massimo di tensione versa la differenza, o verso il pluralismo, poteva corrispondere a quanto un teologo degli stessi anni di Arrupe, Hans Urs von Balthasar, scriveva sul concetto di verità, ovvero che è "sinfónica": suona su registri diversi ma la melodía è una sola. Allo stesso modo Arrupe intende r'inculturazione": essa trae origine dal fatto determinante che Cristo è anzi- tutto l'incarnazione di Dio; incarnazione, cioè il luogo concreto in cui Dio (il Dio dei cristiani e, per gli stessi cristiani, di tutti i popoli) entra nella storia facendosi uomo tra gli uomini.
Il prefisso "in" vuol richiamare proprio questo legame con Fm-carnazione, e cosí la definizione, per Arrupe, è finalmente data: Finculturazione non è altro che Fincarnazione del Cristianesimo entro una cultura come lievito di quella cultura. Dice il gesuita: «II Vangelo da una parte non si puo separare dalla cultura, ma deve andaré fino al fondo di essa, trasformandola e purifi- cándola, alio stesso tempo arricchendosi di tanti valori quanto vi apportano le culture. Dall'altra parte, il Vangelo non si identifica con nessuna cultura; sta sopra di esse».
3.
Il fatto che il termine "inculturazione" emerga proprio dalla cultura gesu- itica non è casuale. Fin dagli inizi la Compagnia, nella sua missione evange- lizzatrice, ha dovuto fare i conti o con culture si erano allontanate dal catto- licesimo occidentale, o con culture che poco o nulla avevano di storicamente condiviso con il Cristianesimo; ovvero la fede, che i missionari gesuiti dove- vano annunciare, doveva essere compresa ed accettata da popoli che ne erano ignari o che fino ad allora erano rimasti all oscuro perlino dell esistenza degli stessi europei (per i pellerossa erano gli ormai celebri "uomini bianchi", men- tre per i melanesiani erano "gli uomini rossi")12.
Sul primo fronte, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, non fu la Riforma a costituire 1 ámbito di sperimentazione di una rinnovata in- culturazione del cristianesimo cattolico. Certo, il cattolicesimo germánico, combatiendo direttamente sul fronte, avrebbe risentito in modo notevole della cultura (soprattutto delletica) protestante, acquisendo caratteristiche specifiche che ne avrebbero accompagnato lo sviluppo fino al Concilio Vati- cano II. L'ambito su cui, invece, si applicô per prima una sensibilità cattolica in direzione delFinculturazione fu quello del cristianesimo ortodosso dei po- poli slavi, presso i quali Fattività di proselitismo era resa ancor più difficile rispetto a quelli dell'Europa centrale in conseguenza di una frattura cultúra- le consumata - sotto il profilo teológico - centinaia di anni prima. Abbiamo testimonianza di questa sensibilità, e della tensione a cui la difficoltà del- la sfida sottoponeva Funità dottrinale cattolica, in diversi scritti del gesuita mantovano Antonio Possevino (1539-1611), la cui intensa attività diplomática per conto di Gregorio XIII ed educativa per conto della Compagnia (fondo i collegi più importanti dei paesi baltici), gli consenti una frequentazione assi- dua della cultura ortodossa.
Dopo aver trattato la pace tra la Polonia di Stefano Bathory e la Russia di Ivan il Terribile (il cui resoconto apologético è tracciato dal Possevino nella sua Moscovia), Possevino ebbe modo di riflettere e scrivere intorno alie diífe- renze di dottrina e cultura tra il cattolicesimo romano e l'ortodossia dei Ru- teni. Il risultato di queste riflessioni, in cui si rivela un apologeta molto meno aggressivo nei confronti degli ortodossi che non nei confronti di luterani e calvinisti, si riversa nelle pagine di alcuni pamphlet sulla liturgia, ma soprat- tutto in un libro delPopera più importante di Possevino, la Bibliotheca Selecta, interamente dedicate al modo di trattare amabilmente i Ruteni. In questo li- bro, Possevino traccia i contorni necessari alla penetrazione del cattolicesimo in una mente slava, e i primi lineamenti delfinculturazione.
La variabilità e la nécessita di un adattamento della dottrina al genius loci è, secondo Possevino, una condizione imprescindibile per lo stesso Cristia- nesimo. Frutto forse della cultura cabbalistica ed ermetica dell umanesimo a cui il Possevino aveva attinto durante la sua formazione, oppure di un saper pratico che aveva maturato durante i suoi lunghi e incalzanti viaggi, il con- cetto a cui si deve il corollario delfinculturazione è quello della presenza in tutte le culture, in tutte le lingue, in tutti i popoli di alcune scintille di quella veritá che risale, attraverso la Scrittura, alia mente di Adamo. Per questo, perfino nei contesti cattolici, Possevino suggerisce che, tra la sicurezza "mo- nolítica" della dottrina di Tommaso d'Aquino o la plastica mobilità del genius loci, è sempre e senz'altro il secondo a dover essere preferito dal gesuita in cerca di anime da convertiré:
Ergo omnis doctrina duas res consequatur, soliditatem, quae omni temerita- te vacet, & consensionem. [...] Quae vero opiniones (cuius cumque auctoris sint) in aliqua provincia, vel civitate, multos Catholicos graves, doctos, &pios offendere scientur, eas expedit ut nemo doceat aut deFendat, quamvis alibi sine offensione doceantur.13
Sul secondo fronte, ovvero su quello delf incontro con culture che poco o nulla avevano avuto a che fare col Cristianesimo, occorre ricordare le incredi- bili trasformazioni a cui Pimmaginario occidentale, proprio nei periodo della fondazione della Compagnia, era andato incontro. Come dice Carl Schmitt in Terra e Mare, la modificazione della percezione spaziale (le scoperte geo- grafiche e astronomiche) ha sempre preceduto e determinate trasformazioni radicali nella cultura europea.
Siamo cosí nella seconda meta del Cinquecento, le Americhe sono state scoperte da poco più di mezzo secolo, il Portogallo va assestando le sue rocca- forti commerciali dall'India alla Cina, dalle Molucche fino al Giappone. Interi popoli, diversissimi tra loro e portatori di civiltà altrettanto variegate, con cul- ture a volte raffinatissime e tecnologie complesse (pensiamo al Celeste Impero ciñese e al Giappone, per esempio), non sanno nulla o quasi del Cristianesimo. I Gesuiti dovettero anzitutto affrontare il problema di come annunciare il Cri- stianesimo a questi popoli, e sanno benissimo che non sarà con la scolastica ed il latino che si faranno capire da loro. L'atteggiamento che ne deriva è radi- calmente nuovo, e la cosa non è di poco conto: il mito infatti della naïveté dei popoli selvaggi, di una loro "nascita" al momento dell'incontro con gli scopri- tori-conquistatori-evangelizzatori europei, era allora e sarà duramente persi- stente nella cultura occidentale. Come dice Tantropologo Marshall Sahlins, tale mito sarà cosi radicato nella cultura europea, da contagiare, attraverso la stagione illuminista, le più moderne discipline antropologiche:
Certe illusioni nate dalla presa di coscienza occidentale della "civilizzazione" si sono cosi rivelate più illuminanti. [...]Anzitutto, analizziamo le lacune as- sociate al carattere cosiddetto non storico delle culture indigene - chiaramen- te in contrasto con la progressività occidentale. Margaret Jolly rimarca che quando noi cambiamo, c'è progresso, ma quando sono ioro che cambiano, in particolare per adottare alcune delle nostre ricette di progresso, essi subiscono una perdita di cultura. Dunque, prima del loro incontro con noi, gli abitanti delle Americhe, dell'Asia, delTAustralia o delle isole del Pacifico erano "abori- geni" e "puri". È come se essi non avessero avuto relazione storica con altre so- ciété, non fossero mai stati costretti ad adattarsi gli uni agli altri. Di più, fino alla comparsa degli Europei, essi erano stati «isolati» - cioè semplicemente noi non eravamo stati là. Essi erano «lontani» e «sconosciuti» - cioè erano lontani da noi, e noi non eravamo al corrente della loro esistenza.14
Di fronte al gesuita appena sbarcato in Oriente (nelle Indie occidentali il problema è análogo, come testimonia Topera straordinaria di José de Acosta)15 si pone anzitutto un problema di lingua: passi pure (poniamo che Tantro- pologia non abbia accertato il contrario) che la religiosità sia un dato natu- rale umano, e che perciô tutti i popoli stiano coltivando una qualche forma di culto, e che quindi possano cogliere il cristianesimo come un'altra forma religiosa, ma come tradurre concetti come Trinità, Incarnazione, Madre di Dio, Resurrezione e cost via? Il Ciñese non possiede queste parole, non puo possederle perché la sua religione e la sua cultura non hanno il Cristianesimo alle spalle. Ecco allora la prima difficoltà: Matteo Ricci, uno dei primi gesu- iti entrati in Ciña, si trova a dover redigere un catechismo, e lo compone in lingua ciñese: è il celebre Tianzhu shilu, che traduce il concetto cristiano di "Dio" con "Signore del Cielo". Ma cosa capivano, in realtà, i Cinesi con questa espressione? Era per loro del tutto inedita? Naturalmente no, e giá questo fatto indica uno specifico stile gesuita verso la differenza: Ricci aveva consapevol- mente usato un'espressione del confucianesimo originario (Xianru), contro quella neo-confuciana che interpretava il Cielo (Tian) nel contesto metafisico di un principio razionale (li) e di un'energia física, ma impersonale (qi). II ca- techismo cristiano si inseriva lingüísticamente, in realtà, in una disputa tutta interna alia religione ciñese. E altrettanto naturalmente questo catechismo ebbe qualche problema con Roma.
La lingua, dunque, innanzitutto. E il Cristianesimo che adegua i suoi con- cetti ai termini usati dai cinesi. Ma - come diceva Lutero - la lingua è il fodero in cui è custodito il coltello dello spirito. Il pensiero concreto coincide con le parole o, per diría à la Wittgenstein, con i giochi linguistici usati in contesti sociali determinad. Per questo si puo parlare di un adeguamento lingüístico del Cristianesimo alie culture dei popoli. Ma, oltre la lingua, ci sono altri pro- blemi. II Ciñese che vede arrivare un gesuita si chiede subito chi sia, e quale ruolo quest uomo svolga nella sua società; e quand anche gli si rispondesse che il gesuita è un "sacerdote", egli non riuscirebbe a comprendere a quale delle varie catégorie cinesi di "sacerdote" esso corrisponda: esistevano infatti i bonzi, i mandarini (che sono più uomini di cultura che non di religione) ecc... I missionari prima di Ricci avevano fallito proprio nel dare questa risposta. Consapevoli che si dovesse stabilire un contado e, quindi, si dovesse divenire familiari con le tradizioni del popolo ospitante, i missionari precedenti (non conoscendo adeguatamente la cultura ciñese) avevano sbagliato la scelta, e si erano fatti passare per omologhi dei bonzi buddisti.
Ricci invece, avendo a lungo studiato la cultura ciñese, si rende conto che i bonzi non sono ascoltati come predicated, sono ritenuti rozzi, e non svol- gono le funzioni che il sacerdote svolge in Europa: sceglie cosi di qualificarsi con un'altra figura del panorama cultúrale e religioso ciñese, e cioè di come mandarino, scommettendo tutto il suo prestigio sulla cultura e conoscenze matematiche occidentali impiegate per maravigliare un popolo cosi raffinate e interessato16. Sarà lui - non i find bonzi - ad entrare a corte delElmperatore: Perció, s'impegnó in una vera e propria opera di «inculturazione» della fede, traducendo il messaggio cristiano nei termini, nei simboli e nelle catégorie della cultura confuciana. Allontanandosi dal modo comune di pensare degli ecclesiastici del tempo, che facevano coincidere la evangelizzazione con la dif- fusione della cultura occidentale, il padre Ricci si mise a tradurre il messaggio cristiano nei concetti e nei termini della cultura confuciana ufficiale. Grazie a questo impegno e ai suoi scritti scientifici e apologetici (tuttora ritenuti tra i migliori modelli della letteratura ciñese), molti dotti cinesi e numerosi man- darini trovarono la via della fede e chiesero il battesimo.17
L'esempio di Matteo Ricci è indicativo per capire il secondo livello di "ade- guamento" che i Gesuiti hanno operate sul Cristianesimo quando si è trattato di comunicarlo ai popoli.
C'è un terzo livello, ed è quello deH'"inculturazione": quali riti, quale spiri- tualità, quale spazio di introiezione e "personalizzazione" della religione puô essere accettato da parte del Cristianesimo, senza perdere la sua essenza e sfigurarsi fino a divenire irriconoscibile? Questa è la domanda che i gesuiti, Ricci e Valignano in particolare, si pongono nei confronti della loro missione. I Cinesi, infatti, una volta riconosciuta l'autorevolezza dei "mandarini occi- dentali" e finalmente ascoltatili nella propria lingua, facevano fatica ad ab- bandonare la propria tradizione, gli usi e i costumi per abbracciare qualcosa di totalmente inedito per loro. L'atteggiamento diffuso tra i cinesi disponibili alia conversione, osservato da Ricci, era piuttosto quello di cercare e ricono- scere uno spazio nei Cristianesimo per alcuni, se non tutti, i riti e i culti tenuti in precedenza. Il peso attribuito al culto della Madonna, per esempio, non avrebbe potuto essere lo stesso volute dal Concilio di Trento: Maria non po- teva essere declinata come la stessa figura del culto occidentale. Per i gesuiti di allora, e di oggi, Tinculturazione significava trovare il punto di equilibrio tra la forma e la sostanza del Cristianesimo, questa dovendo rimanere idén- tica a se stessa, quella potendo tagliarsi come un abito su misura. Si dirá: si traita pur sempre di adeguamento da parte del Cristianesimo, e perció di sua trasformazione. In realtà, il concetto di inculturazione sottolinea proprio il processo inverso: è il Cristianesimo che si arricchisce di valori che la cultura europea (sottolineo, la cultura) non conosce, di cui Toccidente non è pórtate- re. In un certo senso, il Cristianesimo raggiunge la sua universalità scopren- dosi nei valori coltivati da culture che lo incontrano solo in un dato momento della storia, proprio quando il Cristianesimo pensava di essere costruito per sempre, un messaggio finalmente confezionato. Invece, esso si nutre della sua apertura, è sempre in dialogo col tempo.
D'altronde, la prima inculturazione del Cristianesimo awiene fin dalle origi- ni: occorre infatti risalire a Paolo, per trovare la prima ibridazione tra Pispirazione ebraica e la cultura ellenica e latina del suo tempo. Oggi non c'è chi non riconosca che la religione cristiana sia il prodotto dell'incontro cultúrale tra Gerusalemme, Atene e Roma. Il messianismo ebraico, la filosofia greca, la cultura giuridica ro- mana sono i tre pilastri, le tre culture, in cui il Cristianesimo si è inculturato per la prima volta, dando vita alla società occidentale. Una struttura di questo genere appare in tutta la sua problematicità a Daniélou, il quale, ragionando intorno alia prospettiva dell'incontro tra cristianesimo e civilta in época moderna, ritorna sui problemi incontrati dal cristianesimo al tempo della sua prima diffusione:
II cristianesimo si è talmente radicato nella cultura occidentale, ne ha derivato a tal punto le forme teologiche, le forme liturgiche, le organizzazioni comu- nitarie che non si vede come potrebbe riuscire a sciogliersene. Non bisogna dimenticare tuttavia che un passaggio di questo genere si verifica alle origi- ni del cristianesimo. Ma questo trasferimento del mondo semítico al mondo greco-latino è stato appunto una operazione delicatissima che ha richiesto secoli. Quando S. Giovanni ha tradotto hebraico dabar con il greco logos, ha compiuto un gesto di grande audacia.ls
E prima ancora di questa traduzione, giá quella alessandrina della Bibbia ebraica avvea rappresentato un evento - secondo Daniélou -«di portata in- calcolabile». Ma queste traduzioni hanno richiesto tempo e sforzo, e hanno incontrato non piccole difficoltà19. Si pensi dunque a quelle incontrate dal cri- stianesimo con i guarani del Paraguay, i mandarini cinesi, gli inuit, i tibetani, i maori, i senegalesi, nessuno dei quali possedeva nelle sue strutture culturali o sociali alcuno dei tre pilastri sopra menzionati, fondandosi queste culture su paradigmi e concetti radicalmente differenti. La vocazione universale del Cristianesimo ne impedisce la limitazione alia forma cultúrale europea: non sarebbe né universale, né tanto meno cattolico.
Ció pone il grande problema delPunità e cattolicità della Chiesa. La Chiesa deve essere Ecclesia una, una sola Chiesa, perché non vi è che un solo Dio, un solo Battesimo, un solo Cristo. Ma questa unità della Chiesa è, nello stesso tempo, una unità cattolica: Punitá delle civiltá, delle nazioni nella Chiesa, nel rispetto delle loro diversité singóle. Ora, v'è sempre la tentazione di ridurre Punitá alPuniformité, di concepirla sotto forma di una centralizzazione, sul piano delPorganizzazione, o sotto forma d'un modo comune di espressione per quanto riguarda le formulazioni teologiche. Ma Punitá vera è quella che è nello stesso tempo cattolicità; quella che internamente alPunità della fede, alPunità della Chiesa, alPunità del dogma, alPunità delPEucarestia, si esprime attraverso il differenziarsi delle mentalité, delle culture, delle civiltà.20
4.
Vengo all'ultima domanda: quali le ricadute pratiche sul cristiano (a questo punto posso aggiungere, occidentale) del concetto di inculturazione? Dopo il Concilio Vaticano II - durante il quale si segnalarono gli interventi di Máxi- mos V Saigh, maronita capace di mostrare ad un vasto pubblico la Chiesa cat- tolica orientale come il prodotto storico di un'inculturazione diversa da quella latina21 - il concetto di "inculturazione" è divenuto determinante nella pratica del cristiano. Come ritiene O'Malley, si è spostato il baricentro europeizzante della "cultura cristiana" - il Concilio disinnescô di fatto san Tommaso e la scolastica, base della formazione seminariale dei preti, apri il dialogo inter- religioso e spinse l'ecumenismo, dando nuova linfa e nuovo spirito al tema dell'evangelizzazione dei popoli - e hanno iniziato a rientrare, dalle terre di maggior diffusione del Cristianesimo (quelle non europee) contributi teologi- ci e culturali capaci di incidere sulla dottrina.
In certi casi, e proprio secondo un specifico stile conciliare, questi con- tributi hanno de-intellettualizzato il problema, come possiamo vedere in un recentissimo contributo di Peter Tuckson, Presidente del Pontificio consiglio della giustizia e della pace:
Ammiriamo davvero tanto i doni che questi missionari hanno portato dall'Europa e dal Nord America. Poiché essi hanno introdotto e adattato tali doni alle situazioni locali, possiamo usare il termine «inculturazione», che al tempo di Ricci era una inculturazione cosiddetta «alta»: la trasmissione della cultura umanistica italiana ed europea con l'intento di «condurre» Pintelletto dell'uomo confuciano alla vérité e all'etica cristiana, riuscendo a trovare la base morale naturale comune per la comprensione della proposta cristiana. Oggi, dato che «le société camminano e le culture hanno a che fare con la storia», l'inculturazione si gioca sul terreno dell'incontro, nella vita quotidia- na, umile, nascosta di coloro che hanno si una domanda di senso religioso, ma che non riconoscono piú quella comune base morale naturale che li rende aperti all'accoglienza della novité cristiana.22
La de-intellettualizzazione dell'inculturazione, frutto in realtà dello Zeitgeist conciliare, è maturata fino ad oggi, sotto la spinta anche del pon- tificate wojtiliano, decisamente oriéntate verso la pastoralitá - e, in questo aspetto, senz'altro continuo rispetto al Vaticano II.
De-intellettualizzandosi, il tema dell'inculturazione è divenuto eminente- mente un tema educativo, ed è state interprétate in molti casi come un proble- ma di "técnica" dell'incontro tra le culture, di comunicazione tra il cristiano e il non-cristiano.
La condizione di asimmetria fondamentale in cui si trovano le strutture cristiano-cattoliche diffuse nel mondo rispetto ai soggetti che si relazionano ad esse, siano essi singoli migranti o interi popoli, pone infatti il problema dell'inculturazione entro il quadro di una relazione típicamente educativa.
Tale asimmetria, che in termini di analisi delle relazioni di potere (per come evidenziato dallo strutturalismo francese degli anni '60 e '70) espone perfino l'agire caritatevole alla riproduzione ideológica dello sfruttamento ca- pí talistico, ha inizialmente spinto larga parte della pedagogía cattolica a teo- rizzare le condizioni di una relazione educativapeer-to-peer, antiautoritaria e de-strutturata. In questo senso va interpretata la direzione fondamentale delle pédagogie di un Illich o di un Freire; ma in questo senso vanno interprétate anche le tensioni teologiche (pratiche, oltre che teoriche) che hanno contrad- distinto il cattolicesimo centro e sud-americano negli anni '80. II concetto pedagógico di fondo era che Fuñica condizione di possibilità non-ideologica per Finculturazione del Cristanesimo è il realizzarsi pratico di una simmetria tra i soggetti-in-educazione: realizzarsi che Illich vede al di fuori dell'edu- cazione formale; che Freire vede nella coscienza dell'oppresso e che i teologi della liberazione vedono nelleliminazione delle strutture di perpetuazione delFingiustizia sociale.
I problemi teologico-politico-sociali sollevati da queste risposte alla que- stione educativa posta da un'inculturazione de-intellettualizzata, hanno im- posto alla Chiesa un cambio di rotta, che troviamo perfettamente esemplifica- to nelle considerazioni del Presidente della Congregazione per della Dottrina della Fede., Fallora card. Ratzinger. Nel 1993, in un discorso pronunciato ai Vescovi dell'Asia, egli dichiarava: «Non dovremmo piú parlare di "incultu- razione", ma di incontro di culture o di "interculturalità"». L'interculturalità «appartiene alla forma originaria del cristianesimo» e implica sia un'attitudi- ne positiva verso le altre culture e verso le altre religioni che ne costituiscono l'anima, sia un'opera di purificazione e un "taglio coraggioso" indispensabile a ogni cultura che voglia restare aperta e viva.
Ratzinger riposizionava cosi il problema dell'inculturazione su un piano teorico, e, proprio per disinnescare l'aspetto tensivo e/o rivoluzionario del- le recenti interpretazioni, avanzava una critica del concetto, per sostituirlo con quello di "interculturalità" (che avrà cosí larga fortuna nelle scienze so- ciali). In questo modo, il concetto perdeva ogni connotato "attualistico" per riguadagnare una dimensione statica (osmótica, forse; liquida, ma non certo dialettica) in cui il cristiano poteva ritrovarsi finalmente in pace con la sua coscienza anti-capitalistica e, al contempo, libero di attrezzarsi per "comuni- care" meglio il messaggio religioso ad un portatore di cultura altra.
Mentre la cultura gesuita, seguendo le tracce di Pedro Arrupe, continuava a ricercare l'azione nell'incontro tra cristianesimo e culture, la strada aperta da Ratzinger consentiva una traduzione didattica della questione intercultu- rale. II piano del discorso era cosí spostato, e - apparentemente nel rispetto del Vaticano II - le scuole cattoliche potevano collocarsi all'avanguardia della didattica interculturale, sia nel contesto occidentale (pensó ai tanti progetti di questa natura che si svolgono ancora oggi durante l'anno scolastico nelle scuole primarie), sia nel contesto di missione. Se la prima encíclica di Bene- detto XVI ha riguardato proprio la Carita, dichiarandone i possibili sviamenti quando non illuminata dalla fede, il motivo va ricercato nel coerente atteg- giamento del card. Ratzinger di fronte al reagente cultúrale che proprio in terra di missione riporta la questione dell'inculturazione su un piano pratico rivoluzionario, anziché técnico-didattico.
In questo, tuttavia, l'inculturazione di Arrupe (e, come abbiamo visto, di un Ricci) viene definitivamente depotenziata da un punto di vista teórico e dottrinale, e si riduce a quella strategia deH'"accoglienza" che abbiamo visto e che, come massima ambizione, puô avere quella di trasformare il cristiano in uno smaliziato educatore.
Vi insiste infatti da qualche anno in particolare la CEI: il problema dell'e- ducazione, in tempo di migrazione e globalizzazione, pone anzitutto il pro- blema di personalizzare il messaggio nei riguardi di un destinatario portatore di proprie caratteristiche genetiche, di suoi interessi, di una sua storia (indivi- duale, familiäre, sociale), ma soprattutto di una cultura propria. Ció che inve- ce indicava Pedro Arrupe col problema dell'inculturazione, era la conversio- ne del problema educativo da questione meramente técnico-comunicativa a correlato indispensabile della dimensione teológica nell'incontro tra religione e culture. In tale contesto, leducazione diventapotentissima prassi rivoluzio- naria, sia per le culture altre sia per lo stesso cristianesimo:
La trasformazione dell'umanità deve avvenire secondo l'ideale di questa vita trinitaria, per cui tutti possiedono tutto in comune perché tutti esistono in comunione e dandosi vicendevolmente, e, ricevendo se stesso nell'altro, vivo- no in perfetta réciprocité [...].Cosí come il Figlio assunse mediante I'Incar- nazione la particolarité di una natura umana, lo Spirito è presente in tutte le particolarité di ogni nuova inculturazione, manifestando la ricchezza della Chiesa, Corpo Místico di Cristo.
In questa azione dello Spirito si giustifica il legittimo e ragionevole pluralismo nell'unité della Chiesa. Ogni manifestazione rappresenta il tutto della Chiesa, riflessa in una particolarité. Cosí la Chiesa realizza la sua catholicité23.
Il Cristianesimo non verra veicolato, come fosse un messaggio da trasmet- tere, con maggiore o minore precisione, attraverso fini o meno fini tecniche comunicative, ma sarà la germogliazione di un seme religioso inserito in una cultura individuale, che rende viva quella cultura e forma una personalitá.
Cristiano Casalini, Inculturation and Educational Challenge
"Inculturation" is a term introduced in theology by the General Congregation of the Society of Jesus. Fr. Pedro Arrupe S.J. wrote a well-known letter on this topic, gaining for the term "inculturation" a great fortune in Catholic culture and education. Yet, its meaning and importance are usually neglected by educational theorists, who prefer to deal with the concept of "intercultural education". But, even if several catholic theologists have more recently stated that the concept of interculture is more fertile than that of inculturation, this paper aims at demon- strating the cultural differences between the two concepts and at settling a theo- retical framework for an education based on inculturation.
1 Sterminata la letteratura cristiana su questo problema. Mi limito qui ad indicare alcuni titoli di riferimento: H. U. von Balthasar, La verità è sinfónica, Milano, Jaca Book, 19792, H. De Lubac, Cattolicismo. Gli aspetti sociali del dogma, Roma, Studium, 1948 (ristampata in H. de Lubac, Opera omnia, vol. 7, Milano, Jaca Book, 1978); Id., Per una teología delle missioni, Milano, Jaca Book, 1975 (ristampata in H. de Lubac, Opera Omnia, vol. 6: Mística e mistero cristiano, Milano, Jaca Book, 1979, pp. 165-224, col titolo : «Il fondamento teológico delle missioni»); J. Daniélou, Dio e noi, Milano, Bur, 2012. Sulla questione del rapporto tra unità e temporalità nel cristianesimo, v.di Formai classico O. Cullman, Cristo e il tempo. La concezione del tempo e della storia nel Cristianesimo primitivo, Bologna, Il Mulino, 1965.
2 Introducendo il suo Cos'è successo nel Vaticano II, O'Malley elenca cosí i tre principali problemi che vennero ad emersione durante il Concilio: « 1) Le situazioni in cui il cambiamento è opportuno nella Chiesa e gli argomenti con cui lo si puó giustificare; 2) il rapporto tra centro e periferia nella Chiesa ovvero, più concretamente, la giusta distribuzione dell'autoritá fra il papato, cómprese le congregazioni (dipartimenti o uffici) della Curia vaticana, e il resto della Chiesa; 3) lo stile, il modello, in base al quale esercitare questa autorità» [J. O'Malley, Cos'è successo nel Vaticano II, Milano, Vita e Pensiero, 2010, p. 10].
3 Decreti della Congregazione Generale XXXII d. C. d. G. 1974-1975, Roma 1977, p. 80.
4 Un ulteriore sviluppo che la Congregazione richiedeva al Prepósito generale «raccomandandogli prima di tutto che, considerata attentantemente insieme ad esperti la cosa, invii lettere o istruzioni a tutta la Compagnia sulla nécessita che si promuova tale opera nella Compagnia e da parte della Compagnia» [Ibid., p. 89].
5 Dal comma 1 del decreto si evince che quest opera era pensata prevalentemente nei riguardi delle culture del mondo non occidentale, dell'Africa e dell'Asia, non escluse parecchie regioni delLAmerica Latina. II motivo di ció va cercato anche nella non trascurabile (e inedita) presenza numerosa di padri nativi di quei continenti. Cfr. Decreti della Congregazione Generale XXXII d. C. d. G. 1974-1975, cit., p. 26.
6 Ibid., p. 81. Sull'identificazione di inculturazione con aggiornamento, valore chiave del Concilio Vaticano II, e sulle conseguenze dell'incarnazione del Vangelo in un contesto ateo (comunista), rimando al mió Lo spirito della frontiera. Pedro Arrupe: giustizia e educazione, "I problemi della pedagogía", LVI, 1-3 (2010), pp.155-180. Quanto al rapporto cultúrale tra evangelizzazione e umanesimo ateo, topos della letteratura cattolica e cattolico-comunista dagli anni '50 agli anni '70, la letteratura è vasta, e popolata da autori non trascurabili. V.di Mattei, F., Ragione e antiragione in Roger Garaudy, Bulzoni, Roma 1987; e Id., Roger Garaudy. Mon tour du siècle, "Educazione. Giornale di pedagogía critica", 2 (2012), pp. 89-108. Una anticipazione della tensione concettuale tra religione cristiana e idéologie atee del Novecento viene offerta da nions. Suenens nel suo La chiesa in stato di missione, Roma, Coletti, 1956: «Quando Cristo si impadronisce di un uomo, la presa soprannaturale è istantanea, ma l'influenza di questa presa su tutto il suo essere e sull'ambiente nel quale si inserisce avverrá secondo una lenta progressione in lotta con il gioco combinato dei fattori naturali e sociali. [...] Una volta che si è compresa questa lentezza, dovuta non a Dio ma alle cause seconde normali, si puó accentuare senza timoré il legame necessario tra l'evangelizzazione e la umanizzazione del mondo [pp. 38-39]. Sull'incontro tra cristianesimo e umanesimo, oltre alie opere di Danièlou e de Lubac, si veda, per un diverso approccio, J. M. Gonzalez-Ruiz, II cristianesimo non è un umanesimo, Assisi, Cittadella, 1967.
7 P. Arrupe, Lettern sulVinculturazione (14 maggio 1978), in Inculturazione. Concetti, problemi, orientamenti, Roma, Centrum Ignatianum Spiritualitatis, 1979, p. 145.
8 H. De Lubac, Cattolicismo. Gli aspetti sociali del dogma, cit.
9 Sullo stesso argomento si veda l'interessante articolo II problema dell'inculturazione oggi, comparso su "La civiltà cattolica", quaderno 3082 (18 novembre 1978), pp. 313-322.
10 P. Arrupe, Lettera sull'inculturazione (14 maggio 1978), in Inculturazione. Concetti, problemi, orientamenti, cit., p. 146.
11 Più recentemente, padre Sorge ha delineato il profilo di ció che un gesuita intende per inculturazione: «L'inculturazione non è un «accomodamento» a mentalità e a costumi mutevoli, quasi che, per rendere accettabile il Vangelo, esso vada ridotto solo ad alcuni suoi aspetti o annacquato. L'inculturazione non è neppure sinónimo di eclettismo o di sincretismo, quasi si tratti di mettere insieme elementi eterogenei, presi alcuni dalla fede cristiana e altri dalle differenti credenze religiose o concezioni culturali. Nemmeno è la ricerca di una minima verità comune, per fermarsi a questa, rinunciando all'annuncio integrale di tutta la verità. L'inculturazione invece è un processo aperto che, movendo dagli elementi positivi (e contrastando quelli negativi) di una data cultura, la faccia evolvere verso l'accettazione sempre più piena della verità, quale risplende in Cristo» [B. Sorge, Nuova evangelizzazione e comunicazione di massa, in "Aggiornamenti Sociali", 2 (1997), p. 107].
12 Arrupe fa risalirerattitudinegesuitica verso rinculturazione alla spiritualità del fondatore: «La spiritualità ignaziana, con la sua visione unitaria della storia della salvezza e il suo ideale di servizio a tutto il genere umano [...] fu un tentativo geniale, al dire degli specialisti, di incorporare la sensibilità e le caratteristiche culturali del secolo XVI nella corrente della spiritualità cristiana, senza pero arenarsi in un época, la sua, ma piuttosto mantenendo attivi sia il dinamismo dello Spirito che la creatività umana nel corso della storia, in un costante processo di necessario adattamento a tutti i paesi e a tutti i tempi» [P. Arrupe, «Lettera sulLinculturazione» (14 maggio 1978), in Inculturazione. Concetti, problemi, orientamenti, cit., p. 147].
13 Bibliotheca Selecta, L. I, cap. VII "De cultura ingeniorum perspicacium, &hebetum", p. 41 lettera c.
14 M. Sahlins, La lanterna dell'antropologo, Milano, Medusa, 2012, p. 19.
15 José de Acosta, Historia natural y moral de los Indios, 1590. Nel Proemio deh'opera, il gesuita Acosta si dimostra consapevole deha novità che la sua antropología storica introduceva nella evangelizzazione dei popoli delle Indie: «Molti autori hanno scritto diversi libri, e relazioni del Nuovo mondo [...] ma fin'hora non ho visto auttore, che dichiari le cagioni, e le ragioni di tali novità [...] né meno ho trovato libro, il cui argomenti sia dei fatti, e deh'historia dei medesimi indiani antichi» [J. de Acosta, Historia Naturale e morale delle Indie, traduzione di Bernardo Basa, Proemio al Lettore]. Acosta si occupé anche del catechismo degli Indi in Doctrina Christiana y Catecismo para instrucción de indios... con un Confesionario, ed. trilingüe (Lima 1584; ed. facs. Madrid, 1985). V.di anche Thayne R. Ford, Stranger in a foreign land: José de Acosta's Scientific realization in XVI century 1998.
16 Dice Adolfo Nicolás, attuale Prepósito generale della Compagnia di Gesù, commentando il De amicitia ricciano tradotto in ciñese: «L'amicizia è dunque lo stile, la maniera di guardare e abitare il mondo, che lo modella, lo cambia e lo rinnova. Matteo Ricci comprende che è al confucianesimo più antico che deve fare riferimento, se vuole riuscire a comunicare il Vangelo in un contesto cosi lontano nello spazio e nello stile, quale quello del «Paese di Mezzo» (l'espressione ciñese per designare la Ciña). Divenendo amico, egli stesso cambia, cresce, diventa in maniera più consapevole servitore di quel Cristo che è l'amico di ogni uomo, l'amico che si è incarnato nella vita di ogni uomo. Anche Matteo Ricci è stato modellato dall'incontro con i cinesi» [A. Nicolás, Matteo Ricci: l'amicizia come stile missionario, in "Aggiornamenti sociali", 3 (2010), p. 177].
17 B. Sorge, La Chiesa apre alia Ciña, in "Aggiornamenti sociali", 12 (2001), p. 815.
18 J. Daniélou, Saggio sul mistero della storia, Brescia, Morcelliana, 1957, p. 47.
19 «La parola logos era carica di risonanze panteistiche o razionalistiche che è stato necessario eliminare. Le eresie dei primi secoli sono state la espressione delle resistenze della lingua greca alle nuove realtà che le si voleva far esprimere» [Ibidem],
20 Ibid., p. 53.
21 J. W. O'Malley, Cos'è successo al Concilio Vaticano II, Milano, Vita e Pensiero, 2010.
22 P. K. A. Turkson, La Compagnia di Gesú, una storia aperta, in "Aggiornamenti sociali". (2010), pp. 458-459.
23 P. Arrupe, Lettern sulVinculturazione» (14 maggio 1978), in Inculturazione. Concetti, pro- blemi, orientamenti, Centrum Ignatianum Spiritualitatis, Roma 1979, pp. 316-317.
Riferimenti bibliografici
AA.VV., Inculturazione: Concetti, problemi, orientamenti, Roma, Ed. Cen- trum Ignatianum Spiritualitatis, 1979.
F. -V. Anthony, Ecclésial praxis of inculturation. Towards an Empirical-theolog- ical Theory of Inculturizing Praxis, Roma, LAS, 1997.
H. Carrier, Vangelo e culture da Leone XIII a Giovanni Paolo II, Roma, Città Nuova, 1990.
Y.M. Congar, Cristianisme comme foi et comme culture, in AA.VV., Evangeliz- zazione e culture, (Atti del congresso internazionale scientifico di missio- logia. Roma, 5-12 ottobre 1975), Roma, Urbaniana University Press, 1976, pp. 83-103.
G. De Fiore, Strategie di evangelizzazione nelToriente asiático tra Cinquecento e Settecento, in G. Martina, U. Dovere, Il cammino dell'evangelizzazione. Problemi storiografici, Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 97-162.
M. Dhavamony, Inculturazione. Riflessioni sistematiche di antropología sociale e di teología cristiana, Roma, San Paolo Edizioni, 2000.
M. Fini, Evangelizzazione e inculturazione, in Studio Teológico Accademico Bolognese, Teología ed evangelizzazione, a cura di E. Manicardi, Bologna, EDB, 1993.
P. ITünermann, Evangelización y cultura en la historia de la Iglesia, in AA.VV. (Colegio Máximo de San José - Facultad de Teología - Universidad del Salvador), Evangelización de la cultura e inculturación del Evangelio, Bue- nos Aires, Editorial Guadalupe, 1988, pp. 27-49.
L. La Bella (a cura di), Pedro Arrupe. Un uomopergli altri, Bologna, Il Mulino, 2007.
A. Marazzi, Lo sguardo antropológico: processi educativi e multiculturalismo, Roma, Carocci, 1998.
G. Martina, Evangelizzazione e inculturazione, in G. Martina, U. Dovere, II cammino dell'evangelizzazione. Problemi storiografici, Bologna, Il Muli- no, 2001, pp. 9-39.
L. Meddi, Cultura e catechesi: un rapporto naturale, in S. Curro (a cura di), Alterità e catechesi, Torino, Ldc, 2004, pp. 51-67.
A. Nicolás, Matteo Ricci: Tamicizia come stile missionario, in "Aggiornamenti sociali", 3 (2010), p. 177
J. W. O'Malley, Che cosa è successo nel Vaticano II, Milano, Vita e Pensiero, 2010.
R. Panikkar, L'incontro indispensable: dialogo dette religioni, Milano, Jaca Book, 2001.
Id., Pace e ínterculturalità, (a cura di M. Carrara Pavan), Milano Jaca Book, 2002.
Id., Pluralismo e interculturalità, (a cura di M. Carrara Pavan), Milano, Jaca Book, 2009.
A. A. Roest Crollius, T. Nkéramihigo, What is So New about Inculturation?, Gregorian & Biblical Bookshop, 1991.
M. Sahlins, La lanterna dell'antropologo, Milano, Medusa, 2012.
E. Scognamiglio, A. Trevisiol (a cura di), Nel convivio dette differenze: il dialogo nette società del terzo millennio (atti del Convegno internazionale promos- sa da, Pontificia Università Urbaniana, Facoltà di Missiologia, Pontificio consiglio per la cultura, Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, Pontificia Università Urbaniana, 11-12 gennaio 2007), Roma, Urbaniana University Press, 2007.
A. Shorter, Toward a Theology of Inculturation, Wipf & Stock, 2006
B. Sorge, Nuova evangelizzazione e comunicazione di massa, in "Aggiorna- menti Sociali", 2 (1997), p. 107
Id., La Chiesa apre alia Cina, in "Aggiornamenti sociali", 12 (2001), p. 815.
P. Stockmeier, Ellenismo e cristianesimo, in K. Rahner (ed.), Sacramentum Mundi, Morcelliana, Brescia, 1975, 3, pp. 429-442.
R. F. Thayne, Stranger in a foreign land: José de Acosta's Scientific realization in XVI century, 1998.
P. K. A. Turkson, La Compagnia di Gesù, una storia aperta, in "Aggiornamenti sociali", 6 (2010), pp. 458-459.
Cristiano Casalini
Ricercatore di storia della pedagogía, Université di Parma
You have requested "on-the-fly" machine translation of selected content from our databases. This functionality is provided solely for your convenience and is in no way intended to replace human translation. Show full disclaimer
Neither ProQuest nor its licensors make any representations or warranties with respect to the translations. The translations are automatically generated "AS IS" and "AS AVAILABLE" and are not retained in our systems. PROQUEST AND ITS LICENSORS SPECIFICALLY DISCLAIM ANY AND ALL EXPRESS OR IMPLIED WARRANTIES, INCLUDING WITHOUT LIMITATION, ANY WARRANTIES FOR AVAILABILITY, ACCURACY, TIMELINESS, COMPLETENESS, NON-INFRINGMENT, MERCHANTABILITY OR FITNESS FOR A PARTICULAR PURPOSE. Your use of the translations is subject to all use restrictions contained in your Electronic Products License Agreement and by using the translation functionality you agree to forgo any and all claims against ProQuest or its licensors for your use of the translation functionality and any output derived there from. Hide full disclaimer
Copyright Firenze University Press 2013
Abstract
"Inculturation" is a term introduced in theology by the General Congregation of the Society of Jesus. Fr. Pedro Arrupe S.J. wrote a well-known letter on this topic, gaining for the term "inculturation" a great fortune in Catholic culture and education. Yet, its meaning and importance are usually neglected by educational theorists, who prefer to deal with the concept of "intercultural education". But, even if several catholic theologists have more recently stated that the concept of interculture is more fertile than that of inculturation, this paper aims at demon- strating the cultural differences between the two concepts and at settling a theo- retical framework for an education based on inculturation. [PUBLICATION ABSTRACT]
You have requested "on-the-fly" machine translation of selected content from our databases. This functionality is provided solely for your convenience and is in no way intended to replace human translation. Show full disclaimer
Neither ProQuest nor its licensors make any representations or warranties with respect to the translations. The translations are automatically generated "AS IS" and "AS AVAILABLE" and are not retained in our systems. PROQUEST AND ITS LICENSORS SPECIFICALLY DISCLAIM ANY AND ALL EXPRESS OR IMPLIED WARRANTIES, INCLUDING WITHOUT LIMITATION, ANY WARRANTIES FOR AVAILABILITY, ACCURACY, TIMELINESS, COMPLETENESS, NON-INFRINGMENT, MERCHANTABILITY OR FITNESS FOR A PARTICULAR PURPOSE. Your use of the translations is subject to all use restrictions contained in your Electronic Products License Agreement and by using the translation functionality you agree to forgo any and all claims against ProQuest or its licensors for your use of the translation functionality and any output derived there from. Hide full disclaimer