G. Piron, Léon Chestov philosophe du déracinement, Éditions L'Âge d'Homme, Lausanne 2010, pp. 460.
Lev Sestov, (o Léon Chestov, secondo la trascrizione francese) pseudonimo di Ieguda Leïb Isaakovic, è un filosofo "anomalo" che ha suscitato interesse e polemiche in Occidente, soprattutto nella prima metà del XX secolo, e che anche nella riflessione filosofica contemporanea, è rimasto, quasi una spina, un problema irrisolto, a cui si fa riferimento con cautela, come figura esemplare sul cui pensiero non c'è altro da scoprire. "Filosofo di una sola idea" è stato definito, e quell'idea è così chiara, precisa, ribadita, che sul piano filosofico è inessenziale una ricerca sulla formazione e lo sviluppo del pensiero, date anche le vicende fortunose a cui la vita e gli scritti furono soggetti. Così il pensiero di Sestov resta sospeso in un nulla, appare già tutto formato, senza chiaroscuri, e anche per questo un'anomalia.
Il libro di Geneviève Piron si presenta dunque come una novità, in quanto ricerca di quell'evoluzione delle idee del filosofo che la tradizione critica o gli nega o semplicemente non ritiene rilevante. Questo scopo è perseguito attraverso due vie, entrambe interessanti e produttive, rimedio a quel "difetto di storicità" di cui avrebbe sofferto "per lungo tempo lo studio dell'opera del filosofo", dando luogo a incomprensioni e malintesi (p. 356). L'esame dei manoscritti, delle lettere, delle memorie di amici e conoscenti, da cui emergono le ripetizioni, le riprese di concetti e convinzioni da punti di vista diversi, i tentennamenti e le insistenze, in una parola l'intreccio indissolubile della riflessione e delle situazioni storico-biografiche di Sestov. E l'analisi ricca e ben articolata della metodologia costruttiva dei suoi testi, con la quale si illustra il percorso del suo pensiero, dalla originaria "vibrazione" dell'ancora oscura interiorità emozionale, alla forma intuitiva e poi concettuale.
Nell'Introduzione l'autrice indica i suoi obiettivi: "ricostruire i fondamenti del pensiero sestoviano e i principi dell'organizzazione dei testi a partire dallo studio dei manoscritti" (p. 21). E li ribadisce nel corso dell'analisi, convinta che "al contrario di ciò che il filosofo sembra affermare, soltanto la sua poetica contiene delle chiavi che permettono di dissigillare alcuni segreti convogliati dalla sua opera" e che "determinano tutti i suoi orientamenti"(p. 93). Ella sostiene perciò che è la propria formazione letteraria a fornirle gli strumenti per un nuovo approccio all'argomento che dia, tra l'altro, ragione dello stato di "disordine" cronologico e dell'apparente ripetitività degli scritti.
L'analisi testuale le permette così di individuare, nella riflessione di questo pensatore che ha fatto della lotta contro le evidenze razionali il suo dettato teoretico, il filo conduttore di carattere esistenziale che colma di significato filosofico la struttura aforistica dei diversi testi e la polisemia di determinate espressioni. In questa scelta l'autrice è confortata dallo stesso Sestov che, rifacendosi al Nietzsche di Aurora, asserisce la necessità di una lettura filologica degli stessi scritti filosofici: una lettura lenta capace di prendere le distanze dal testo, di entrare nella zona del silenzio, per evitare di perdersi tra le ipotesi infondate, le osservazioni psicologiche arbitrarie e le digressioni liriche (p. 20). Un modello esemplare le è offerto dal termine "sradicamento" (déracinement), la cui polisemia consente di ricostruire l'evoluzione del filosofo dal vissuto esistenziale della fine del secolo (1895), alla riflessione su questo dramma e infine all'utilizzazione programmatica del concetto di sradicamento, a partire dal 1905, con l'appello a una filosofia della libertà, contro le evidenze cartesiane e i fondamenti razionalistici. L'analisi diacronica del termine nel contesto sestoviano svela la prospettiva sincronica da cui muove e a cui approda la riflessione dell'autore, o in altri termini il significato profondo, metafisico di cui esso è portatore. Nella sua radicalizzazione, infatti, ben chiara nell'opposizione di Atene e Gerusalemme, il termine "sradicamento" significa l'esplosione della patina di civiltà e la "riconduzione dell'essere alle sue radici metafisiche dimenticate" (p. 223). In questa visione apocalittica in cui tutti i riferimenti sono crollati, primo fra tutti quello della connessione causale, si dilegua anche la definizione morale del male, che non è legato fondamentalmente, come invece immediatamente sembrerebbe, alla colpa, ma discende dalla condizione mortale dell'uomo, condizione comune sia al giusto che all'ingiusto. Il senso di colpevolezza, il rimorso, secondo l'esperienza dello stesso Sestov, precede qualsiasi determinazione, è un sentimento "senza oggetto" e appartiene pertanto alla "coscienza apocalittica" (p. 226). Da questo squilibrio, vissuto dalla ragione con "orrore" e "terrore", scaturirebbe il salto verso la salvezza, con la fede in un nuovo ordine di possibilità, che Dostoevskij, ad esempio, avrebbe esperito, durante le sue crisi epilettiche, come un "contatto con l'altro mondo" (p. 227).
È muovendo da questo piano, esistenziale, e non genericamente esperienziale, che bisogna affrontare, secondo la ricostruzione di Geneviève Piron, lo studio dell'opera di Sestov. Egli, infatti, si affida alla dimensione rivelativa dell'esistenza che anche il più razionalista dei filosofi(Cartesio) ha avvertito, sebbene questa esperienza esuli in sostanza dalla sua costruzione filosofica. Perciò lo stesso colloquio con i molti autori citati da Sestov non è mai un tentativo di penetrarne la logica del pensiero, ma piuttosto lo sforzo di risalire alla puntualità, al qui ed ora, di quel loro vissuto ben determinato, perché segnato dalla rivelazione (e non dall'ispirazione come aveva osservato Ern [p. 80]), e che resta fuori della dimensione storica della continuità, ossia della connessione razionale e temporale. Qui, nella concentrazione dell'istante rivelativo, la cui ripetizione è affidata all'assoluta arbitrarietà della rivelazione, si manifesta l'unità dell'anima, la sua dimensione metafisica. Nello stesso tempo, la rilevanza di questa alterità o, in altri termini, la rivelatività del bagliore esistenziale finisce per cancellare la dimensione soggettiva, l'io (p. 239). La crisi personale del 1895, mai chiarita dall'autore, costituisce, infatti, secondo Geneviève Piron, l'inizio di una metodologia psicologica con cui il filosofo occulta la propria identità dietro le parole, sotto le maschere dei diversi personaggi e dei diversi pensatori, nella ricerca "dei punti d'identificazione dei personaggi tra di loro e con lui stesso", in uno sforzo "d'interpretazione creativa verso l'interiorità profonda di un vissuto così singolare, così soggettivo, che vi si perde la nozione di soggetto" (pp. 240-241). Sestov, ella sostiene, legge gli scritti dei diversi filosoficome "una confessione non voluta", cosicché lo stesso pensiero di Kant, di Fichte e di Schopenhauer sulla soggettività, evoca il significato spirituale di quel "residuo oscuro" che resiste alla conoscenza, e rimanda alla fonte del vivente di cui l'io, la coscienza che controlla, non è il detentore e neppure il gestore (p. 245). Il filosofo dunque dà alla sua analisi la forma di uno stranstvovanie, di una "peregrinazione" attraverso le anime, rifiutando "l'onniscienza" propria dello storicismo hegeliano che tende a connettere le storie individuali in una totalità "conoscibile mediante la sintesi intellettuale" (p. 238). L'esperienza, invece, fa emergere il mistero impenetrabile in cui si radica la stessa vita umana e "in cui si nasconde il significato finale della storia, che sfugge all'uomo", legittimando la lettura biblica degli eventi (p. 283). Una tale assenza di senso, non imputabile "a una fatalità iscritta in un ordine immutabile dell'universo" (p. 366), apre alla ricerca individuale manifestando l'essere della soggettività in lotta contro le evidenze, contro la necessità storica, contro le idee. In questo modo, conclude Geneviève Piron, Sestov si fa difensore di un pluralismo e di un individualismo religioso che sfocia in "una difesa originale della tolleranza", dando alle divergenze, alle difficoltà o impossibilità di comunicazione un valore positivo, in quanto segno di uno sviluppo singolare dei diversi individui, coerente con la loro natura libera (p. 367).
L'analisi di Geneviève Piron, condotta con grande maestria, profonda, articolata, ben documentata, sfocia dunque in una conclusione che si arresta alle soglie della sintesi filosofica, denunciandone tuttavia l'ineludibilità. Se la critica tradizionale aveva dato un'immagine univoca e definitiva dell'opera di Sestov, questo libro ce la restituisce ricca di chiaroscuri, di esitazioni, silenzi e contraddizioni frutto delle "pulsioni inconsce" che avevano portato l'autore "sull'orlo della follia" (p. 357). Ancorate alle diverse fasi e ai molteplici contenuti di una riflessione in fieri, le conclusioni dell'autrice (pp. 356-368) si attengono all'orientamento programmatico di un'analisi "non lineare" delle idee di Sestov (p. 21). Il tracciato unitario di quella coscienza critica che ogni filosofo, in quanto tale, possiede, indipendentemente dalla sua metodologia, è lasciata volutamente in ombra e l'ostinata denuncia del limite falsificante della ragione da parte di questo pensatore sembrerebbe giustificare la scelta di trattarne gli scritti dal punto di vista di una poetica piuttosto che di una filosofia. Sebbene il ricorso dell'autore alla dimensione esistenziale, sottesa alla molteplicità delle esperienze individuali, così ben documentato anche nel libro di Geneviève Piron, non soltanto legittimi, ma renda inevitabile quel giudizio filosofico che lo stesso Sestov suo malgrado sollecitava mettendosi in discussione sul piano della riflessione. Nonostante il suo pensiero non abbia l'organicità di un sistema, non gli si può negare infatti unità e coerenza logica, al di là dei moventi psicologici, biografici e storici che ne hanno determinato la complessità dello sviluppo. Così che risulta legittima (e sul piano filosofico necessaria) anche una lettura che restituisca unità al discorso sestoviano, in modo che muovendo da qualsiasi punto di esso si possano rinvenire i fili che lo legano agli altri secondo uno sviluppo interiore, e razionale. Un punto cruciale, a questo proposito, ci pare quella concezione peculiare di libertà che giustifica il modo di intendere la fede, la conoscenza e la storia da parte di Sestov. Egli muove infatti dall'assunto che nel suo significato autentico la libertà non consiste nella scelta, ma la precede, come atto creativo di un soggetto metalogico che sfugge pertanto a qualsiasi determinazione (come ben rilevava la Piron a proposito della perdita della nozione dell'io nell'approfondimento interiore), sia che si tratti del soggetto assoluto, capace di sovvertire ogni dato (Dio), sia che si tratti del soggetto relativo che si protende oltre i propri limiti (empiria, storia, logica) verso quell'assoluto che, restando al di là della determinazione-limitazione, è l'indefinibile, il mistero, dunque il limite dello storico e dell'empirico, prodotto di un bisogno o creazione di fede. E infatti, come correttamente osserva l'autrice, la fede per Sestov "non è una credenza", non "un sentimento di fiducia in Dio", ma "una forza viva, una possibilità di riparazione", sì che nella prospettiva massimalista da cui egli muove essa si identifica con il suo contrario, "la non fede assoluta, la notte, il nulla" (p. 367). Una tale identità di contrari è possibile soltanto se l'altro, cui la fede tende, è l'assolutamente trascendente (ossia attualità libera), così che di lui nulla si può dire dal punto di vista dell'immanenza (legata al al fatto) e di cui non è possibile neppure predicare l'esistenza. Si potrebbe obiettare che per Sestov l'interlocutore del credente è il Dio biblico, dunque personale, che si rivela a Israele manifestandogli la propria volontà. Tuttavia è anche vero che di questo Dio biblico l'uomo può dire soltanto quello che Lui stesso ha detto, e ciò che ha detto è ormai un fatto. Nessuna definizione (bontà, onnipotenza, onniscienza) può caratterizzarlo realmente, in quanto ogni determinazione appartiene al mondo della finitezza e della necessità logica, dove Egli "intrude" come l'assolutamente altro, e come tale viene voluto. Essendo le parole che usa per farsi comprendere umane, Dio resta al di là di quelle stesse sue parole, come volontà non misurata dai fatti, dal qui ed ora, dunque volontà in grado di sovvertire la direzione temporale, l'ordine delle cose, i valori morali, le stesse disposizioni trasmesse dalle sue parole umane. Per questo il riconoscimento della parola biblica come parola di Dio è insieme un disconoscimento di Dio. Questi, essendo libertà, non può scadere nel fatto che verrebbe a costituire il suo condizionamento. L'esigenza di andare oltre il fatto si rivela dimensione esistenziale che confina con il mistero e lascia all'individuo-soggetto libero la responsabilità totale della propria fede. Ciò è chiaro anche nel ricorso di Sestov all'allegoria e al pensiero mitico che prima ancora di essere "una disfatta sempre attuale della filosofia", come osserva la Piron (pp. 347-348), sancisce la distanza invalicabile tra Dio e l'uomo, l'impossibilità da parte di quest'ultimo di cogliere la voce divina. La percezione del mistero come dimensione esistenziale, e dunque propria di ogni uomo, non traghetta sull'altra sponda, e ogni via per la fede non soltanto è strettamente personale, ma non può mai implicare un giudizio di valore rispetto alla miscredenza perché non c'è alcun criterio cui affidare il giudizio: la volontà dell'affidarsi è libera. Nel libro di Geneviève Piron questo pensiero è esposto secondo il moto ondivago del suo formarsi e del suo ritrarsi da conclusioni che sarebbero naturalmente comportate dalle premesse e ha il merito di rendere il lettore partecipe dell'esperienza dell'uomo Ieguda Leïb Isaakovic.
Angela Dioletta Siclari
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Copyright Firenze University Press 2010
Abstract
La crisi personale del 1895, mai chiarita dall'autore, costituisce, infatti, secondo Geneviève Piron, l'inizio di una metodologia psicologica con cui il filosofo occulta la propria identità dietro le parole, sotto le maschere dei diversi personaggi e dei diversi pensatori, nella ricerca "dei punti d'identificazione dei personaggi tra di loro e con lui stesso", in uno sforzo "d'interpretazione creativa verso l'interiorità profonda di un vissuto così singolare, così soggettivo, che vi si perde la nozione di soggetto" (pp. 240-241). Il tracciato unitario di quella coscienza critica che ogni filosofo, in quanto tale, possiede, indipendentemente dalla sua metodologia, è lasciata volutamente in ombra e l'ostinata denuncia del limite falsificante della ragione da parte di questo pensatore sembrerebbe giustificare la scelta di trattarne gli scritti dal punto di vista di una poetica piuttosto che di una filosofia. Egli muove infatti dall'assunto che nel suo significato autentico la libertà non consiste nella scelta, ma la precede, come atto creativo di un soggetto metalogico che sfugge pertanto a qualsiasi determinazione (come ben rilevava la Piron a proposito della perdita della nozione dell'io nell'approfondimento interiore), sia che si tratti del soggetto assoluto, capace di sovvertire ogni dato (Dio), sia che si tratti del soggetto relativo che si protende oltre i propri limiti (empiria, storia, logica) verso quell'assoluto che, restando al di là della determinazione-limitazione, è l'indefinibile, il mistero, dunque il limite dello storico e dell'empirico, prodotto di un bisogno o creazione di fede. Ciò è chiaro anche nel ricorso di Sestov all'allegoria e al pensiero mitico che prima ancora di essere "una disfatta sempre attuale della filosofia", come osserva la Piron (pp. 347-348), sancisce la distanza invalicabile tra Dio e l'uomo, l'impossibilità da parte di quest'ultimo di cogliere la voce divina.
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