Keywords: razzia, tratta, mercato, schiavitù, viaggio, memoria; raid, slave trade, slavery, travel, memory.
1. Me lo ricordo benissimo quel foglio scritto a mano, appiccicato al muro rosa della Casa degli Schiavi, un po' sbiadito dal sole e arricciato dall'umidità. «Non è una vergogna essere schiavi; la vergogna è avere degli schiavi», M. Gandhi. In quelle scarne righe, intrise di salmastro d'oceano, c'era tutto il dramma di quelle buie e brutte pagine scritte da un mondo che si definiva civile.
Era stato Joseph N'Diaye, guardiano e conservatore della casa degli schiavi a Gorée, piccola isola di fronte a Dakar a trascrivere quelle parole. Lui, che poi si arrampicava su quelle scale dalle armoniose rotondità di una conchiglia, per arringare i visitatori con la sua voce tonante. E loro stavano lì, in quel cortile troppo piccolo per contenere la forza delle parole di quell'uomo, che non voleva lasciare spegnere il fuoco del ricordo. Ricordo doloroso, per i discendenti degli schiavi e anche per noi, che facciamo parte del mondo che fu schiavista.
Lui parlava da lassù e in qualche modo faceva sentire in colpa noi turisti bianchi. La gente ascoltava in silenzio. Nessuno parlava. Lui invece sì, raccontava di catene, di urla, di pianti, di ricordi abbandonati, di non uomini.
Non uomini, perché lo schiavo è un individuo strappato alla sua vita e alla sua storia. Lo schiavo non ha più genitori, né figli, gli è stata recisa la parentela. I suoi figli non apparterranno a lui, ma al padrone, che ne disporrà a suo piacimento. Lo schiavo è inserito nel processo produttivo, ma escluso dal circuito riproduttivo.
«Sento salire dalla stiva maledizioni incatenate, i singulti dei moribondi, il rumore di uno che viene buttato in mare... i lamenti di una donna che partorisce... il raschiare di unghie che cercano la gola... i ghigni della frusta... il rimestare dei parassiti fra la gente sfinita... Non appartengo a nessuna nazionalità prevista dalle cancellerie ». Così Aimé Césaire, con parole che sono frustate, che sono urla, rivive la tragedia di milioni di deportati.
Non furono certo i bianchi a inventare la schiavitù, l'Africa la conosceva bene. Molte famiglie, in tutto il continente, possedevano schiavi. C'erano forme diverse di schiavitù, alcune più dolci, in cui lo schiavo era una sorta di servitore che faceva parte della famiglia, altre più dure, ma sempre di coercizione si trattava. Poi arrivarono gli europei, olandesi, portoghesi, inglesi, francesi e costruirono i loro fortini sulle coste. L'Africa faceva ancora troppa paura per arrischiarsi a entrare nelle sue foreste e nelle sue savane. Si trattava così con gli intermediari, quelle popolazioni costiere che avevano dato vita a regni più o meno vasti e che si impegnavano in raid nelle regioni dell'interno, per razziare donne, uomini e bambini da vendere ai mercanti bianchi.
«Cerchiamo cristiani e spezie» aveva detto Vasco de Gama con inquietante sincerità, parole che si possono tradurre in un centinaio di milioni di «cristiani» di colore deportati dalle loro terre. Gli schiavi erano moneta corrente anche per gli scambi interni. Imposte, debiti, acquisti, tutto poteva essere pagato con denaro umano, gli schiavi erano merce di valore e come tale venivano trattati.
Più di due secoli e molti altri morti dovranno passare prima che un giorno d'inizio dicembre del 1955 la signora Rosa Parks trovi la forza e il coraggio di non obbedire all'autista dell'autobus, che le intimava di andarsi a sedere nel retro, come spettava ai neri. Più di due secoli e molti altri morti prima di poter sentire la voce di Martin Luther King urlare al mondo «I have a dream», dire che sognava che i suoi quattro figli piccoli avrebbero vissuto un giorno in una nazione nella quale non sarebbero stati giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere.
Era il 1963.
Dalla cittadina di Ouidah, antico porto di tratta nel Benin meridionale, parte una pista polverosa, battezzata route des esclaves, che scende verso il mare. Lungo la strada si incontrano statue dipinte di verde, raffiguranti divinità vodu, simboli regali, ricordi della tratta. Una targa indica l'albero dell'oblio, attorno al quale gli schiavi dovevano compiere diversi giri per dimenticare la loro terra natale. Un'altra targa indica il sito dove venivano accantonati gli schiavi prima di essere imbarcati. Una statua raffigura la posizione in cui venivano legati perché non reagissero. Accovacciati, le ginocchia piegate, le braccia immobilizzate. Erano le tappe di un tragico percorso iniziato nei villaggi del nord, dove gli schiavi venivano catturati, per finire, dopo un viaggio da incubo su navi puzzolenti di feci e vomito in qualche angolo sperduto delle Americhe.
Da poco è stato eretto un cippo del pentimento, con un' epigrafe che invita tutti i beninois a riflettere. Unico accenno di autocritica in questa nebbia che sembra ottundere il ricordo di una delle peggiori espressioni della crudeltà umana.
La pista attraversa l'acquitrino, poi sale leggermente per raggiungere un ponticello sulla laguna e infine sbucare sulla spiaggia. Il vento solleva la sabbia rosa e rende l'atmosfera vellutata. Come se si uscisse per qualche istante dalla realtà del momento. In fondo, sull'azzurro sbiadito del cielo, spicca l'arco rosso della Porta del non ritorno.
Realismo socialista e stilizzazione africana si fondono nei bassorilievi apposti a memoria di quei milioni di uomini e donne strappati alla loro terra e deportati. In alto, sull'arco, due lunghe file di incatenati si avviano tristemente verso le onde arroganti dell'oceano. Sull'altra facciata gli schiavi sono visti di fronte. Hanno gli occhi sbarrati, impauriti. Di quella paura che li spingeva a gettarsi in acqua, incatenati dalle scialuppe, prima di raggiungere le navi che attendevano al largo. Guardando quei volti sembra di sentire grida, pianti, sferragliare di catene e colpi di frusta.
Poco più in là è sorto un ristorante, Le jardin du Bresil, rosso mattone come l'arco. Quasi ti viene da voltare la testa verso il mare. Là, dove il piombo delle onde sfiora il grigio sfumato delle nuvole. Laggiù c'è il Brasile. Laggiù finiva il viaggio degli schiavi. Abbiamo poca memoria per le cose che ci disturbano. Le cacciamo come mosche noiose, che turbano la nostra quiete. Ben venga allora quella mosca nera, forte e nodoso come un baobab, che è Joseph N'Diaye a ricordarci cosa è accaduto, fino a che punto può arrivare la crudeltà umana.
E anche a ricordare ai molti tra noi, che continuano a maledire le migliaia di dannati della terra che cercano un'esistenza migliore lontani dal loro continente, che in un passato non lontano eravamo noi a strapparli dalle loro case e a portarli nelle nostre, per sbatterli nelle paludi di un'esistenza decisamente peggiore.
2. Il termine schiavo e il relativo concetto di schiavitù vengono oggi, nel linguaggio comune, spesso citati in riferimento a forme di assoggettamento assai diverse tra di loro e spesso non facilmente paragonabili. Si sente parlare di schiavitù della droga o dell'alcol, di schiavitù del lavoro, ma in molti casi si tratta di dipendenze, che poi conducono a forme di assuefazione dalle quali è difficile liberarsi, come lo è per i veri schiavi. Ciò che però distingue la vera schiavitù, è il feroce atto di violenza che viene compiuto da un individuo o un gruppo di individui su un altro o su più persone. Non si tratta della conseguenza non voluta di un percorso scelto (anche se talvolta in condizioni difficili), come nel caso della droga, ma di un'imposizione subita con la forza. Ma non solo.
Lo schiavo viene strappato dal suo ambito familiare, recidendo in questo modo ogni suo legame con il passato e con il presente. Scorporato a forza dal contesto in cui è nato e cresciuto lo schiavo viene reciso dal suo passato e la sua storia viene cancellata.
A sostenere questa tesi è stato l'antropologo francese Claude Meillassoux, che ha analizzato diverse forme di schiavitù nell'Africa del passato e in quella attuale.1 Lo schiavo è per Meillassoux il «non parente» per definizione, perché una volta ridotto in schiavitù, non ha più famiglia e non potrà possederne. Dalla sua famiglia d'origine è stato allontanato e i suoi figli, se mai potrà averne, saranno proprietà del suo padrone e non sua. Lo schiavo è quindi socialmente sterile, avulso dal flusso vitale della società in cui vive. Come sostiene Adriana Piga: «Gli schiavi erano gente privata della loro identità etnica, in quanto privati della loro parentela; uno schiavo, sostiene, non è né figlio né padre».2 È tale la sostanza irriducibile del suo stato sociale, caratterizzato dalla negazione della sua persona, che può essere venduto e messo a morte.
In molti casi si confondono casi di servitù e di asservimento con la schiavitù. Tale sovrapposizione non è però sostenibile sul piano del diritto. Le prime, infatti, sono forme di sottomissione talvolta occasionali, ma che non prevedono un controllo totale della persona. La messa in schiavitù, prevede, invece, l'annullamento di ogni diritto e di ogni proprietà dell'individuo.
Al di là dello stato di diritto che affligge lo schiavo, esiste però un aspetto economico, che si dimostra ancor più rilevante nella definizione del concetto di schiavitù. Lo schiavismo è un sistema sociale, basato sullo sfruttamento di una classe sottomessa, la cui riproduzione avviene attraverso l'acquisizione (cattura, acquisto) di esseri umani.
Il modo di riproduzione della schiavitù mette in relazione differenti componenti. Le prime sono popolazioni razziate, che a volte, per difendersi dalla violenza, accettano una sottomissione che le protegga dall'asservimento. Le seconde sono le organizzazioni guerriere (bande o stati) che catturano per il loro uso e per il mercato. La guerra favorisce la costituzione di una classe aristocratica che grazie al dominio sugli schiavi si arricchisce e aumenta la sua potenza bellica. Ci sono poi i mercanti, per i quali gli schiavi sono una merce destinata a portare un profitto. Nelle società orientali e africane, le donne sono preferite agli uomini per il loro lavoro (agricoltura, attività ancillari, filatura e facchinaggio) e la loro docilità, servono anche come spose e come concubine. Quando la sex ratio è loro favorevole, esse contribuiscono poco alla riproduzione della classe asservita. Nelle società dove domina l'agricoltura della piantagione, la domanda volge maggiormente sugli uomini. Infine, ci sono le società clienti, che acquistano i prigionieri per utilizzarli come forza lavoro e sono in genere questi imprenditori schiavisti, che tengono in mano essenzialmente il mercato. Per questo, conclude Meillassoux: «Lo schiavismo, in ragione del suo carattere predatore, esiste finché durano le sue fonti d'approvvigionamento».3
3. Alla tesi di Meillassoux si contrappone quella di alcuni antropologi anglosassoni e in particolare a Suzanne Miers e Igor Kopytoff, i quali sostengono invece, che la pratica della schiavitù deve essere analizzata in un contesto più generale, legato ai «diritti sulle persone ». Con questa espressione si intendono i legami gerarchici di parentela, i vincoli matrimoniali, le diverse forme di adozione, i legami di discendenza riferiti al lignaggio o al clan. Miers e Kopytoff prendono in considerazione la schiavitù in Africa, prima della tratta e fondano la loro teoria soprattutto riflettendo sull'uso delle categorie concettuali utilizzate. Gli occidentali, sostengono i due autori, se vogliono comprendere la schiavitù nelle società africane tradizionali, devono innanzitutto abbandonare la loro concezione di schiavitù come «proprietà delle persone».4 Il problema sta alla base delle relazioni parentali e di discendenza di gran parte delle società africane, dove di fatto il lignaggio, cioè l'insieme di individui che discendono da un antenato comune, «possiede» i suoi membri e questi costituiscono la ricchezza del lignaggio stesso. In questo caso la definizione di schiavitù come «l'istituzione legalizzata di un individuo come proprietà»5 non reggerebbe alla prova dei fatti. Fatti che si traducono, per esempio nella pratica quanto mai diffusa, della cessione di figli in adozione in cambio di denaro. Questi bambini finiscono per entrare a far parte di un'altra famiglia, vivono con i nuovi genitori e con i loro figli. A loro volta i genitori adottivi possono poi «rivendere » il bambino o «affittarlo» come lavoratore. Possiamo considerare questa pratica una forma di schiavitù? -si chiedono Miers e Kopytoff. Il tema è quanto mai attuale e non riguarda solo il passato. Infatti, in alcune parti dell'Africa, come per esempio nel Benin meridionale, siamo in presenza di un traffico sempre maggiore di «adozioni» finalizzate all'utilizzo dei bambini come manodopera.
Secondo gli autori non si può paragonare questa forma di transazione alla vera e propria schiavitù, come viene intesa nell'accezione occidentale. Anche gli schiavi del passato finivano prima o poi, con il succedersi delle generazioni, a fare parte della famiglia a cui appartenevano, anche se rimanevano marginali.
Letta in questi termini, la schiavitù avrebbe come finalità quella di assicurare l'assorbimento (absorption) degli individui nei gruppi di parentela una o due generazioni dopo la riduzione in schiavitù. Quest'ultima interpretazione trova riscontro in alcuni casi e fa riferimento soprattutto a quelli che vengono chiamati schiavi domestici, con i quali i proprietari intrattengono rapporti più stretti e talvolta connotati da una maggiore familiarità e da un minore atteggiamento gerarchico.
Non regge però alle molte forme, anche moderne, di schiavitù, all'interno delle quali gli schiavi sono inseriti in rapporti di produzione del tutto diversi rispetto a quelli degli uomini liberi.
4. «Non so se caffè e zucchero siano essenziali alla felicità dell'Europa, so però bene che questi due prodotti hanno avuto molta importanza per l'infelicità di due grandi regioni del mondo: l'America fu spopolata in modo da avere terra libera per piantarli; l'Africa fu spopolata per avere braccia necessarie alla loro coltivazione » scriveva Bernardin de Saint-Pierre, scrittore e viaggiatore francese del 1700. Suona strano parlare di "dolcezza", se si pensa a quanto dolore può esserci stato dietro a un cucchiaino di zucchero. Eppure, come ha messo bene in luce Sidney Mintz, lo zucchero fu una delle cause principali della tratta africana verso le Americhe. Storia dello zucchero, il titolo italiano del libro di Mintz,6 non rende in pieno l'idea di fondo come quello originale: Sweetness and Power, molto più evocativo e pregnante.
I sempre più fitti commerci internazionali, dice Mintz, portarono in Europa tre bevande: il caffè, originario dell'Abissinia, il tè, proveniente dall'Asia e il cioccolato, che arrivava dalla Mesoamerica. Tutte e tre queste bevande avevano però bisogno di essere addolcite con lo zucchero.
Il gusto del dolce non era mai stato molto diffuso, nemmeno nel passato, e se lo era risultava appannaggio delle classi più agiate della nobiltà che potevano permettersi di addolcire i cibi con il miele. Le nuove bevande richiedevano però quantità di zucchero maggiori e la domanda iniziò a crescere, in seguito al diffondersi, soprattutto nell'Europa del Nord di locali come le sale da tè e i caffè. Era nelle Americhe e in particolare nell'area caraibica, che si trovava la maggior parte di piantagioni di canna da zucchero. Mancava però la mano d'opera per lavorare in quelle piantagioni, in quanto gran parte delle popolazioni locali erano state sterminate dai colonizzatori europei. Fu così che, per rispondere alla domanda di zucchero, olandesi, portoghesi, inglesi e francesi, pensarono di andare a cercare in Africa braccia da lavoro e di trasportarle nelle Americhe. Una tragedia che vide tra i 12 e i 15 milioni di giovani e donne africani strappati alle loro case per essere imbarcati su nave negriere. Considerati più resistenti e forti, i neri africani rappresentavano la soluzione del problema. Nacque così il cosiddetto commercio triangolare che, a partire dal XVII secolo, costituì una vera e propria istituzione commerciale tra i tre continenti affacciati sull'Oceano Atlantico. Una volta comprati o catturati, gli schiavi neri attraversavano l'oceano per raggiungere il continente americano dove sarebbero poi stati destinati ai lavori forzati. Una delle principali attività era il lavoro di raccolta nelle piantagioni di cotone, da cui il prodotto grezzo partiva per essere esportato in Europa e lì lavorato nelle moderne manifatture industriali che lo trasformavano in abiti e tessuti. Abiti e tessuti che ripartivano per l'Africa, dove venivano venduti e barattati con nuovi schiavi.
5. Dopo la tragica epopea della tratta africana, che ha visto come vittime oltre 20 milioni di africani e come carnefici molti di quegli stati che si piccavano di rappresentare il faro della civiltà nel mondo, alcune cose iniziarono a cambiare. Non è casuale che sia proprio la Gran Bretagna tra le prime ad abolire la schiavitù. La manodopera gratuita, infatti, faceva concorrenza al nuovo sistema manifatturiero industriale nascente. Nella prima metà del XIX secolo la maggior parte degli stati promulgano leggi contro la schiavitù e la tratta di schiavi.
Nel 1926 la Società delle Nazioni promulga il primo trattato internazionale che riguarda la schiavitù, che verrà poi ripreso nell'articolo 4 della Dichiarazione dei diritti umani del 1948: «Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma».
Né le leggi né tanto meno le dichiarazioni di intenti sono sufficienti a sradicare una pratica, soprattutto quando questa è così conveniente. La schiavitù, nell'era moderna, ha assunto nuovi volti e forme differenti, tant'è vero che ancora nel 1956 l'ONU ha dovuto promulgare una seconda convenzione finalizzata a condannare anche tutte le pratiche affini allo schiavismo.
Proprio in quegli anni il giornalista britannico Robin Maugham, con trascorsi nei servizi segreti, condusse una lunga inchiesta-reportage, tra il 1958 e il 1959, sulla persistenza dello schiavismo nelle regioni del Sudan francese, nonostante l'amministrazione coloniale avesse abolito e proibito ogni pratica schiavistica.
Ecco alcune parti del dialogo con Saba, una sorta di prosseneta locale a cui Maugham chiede informazioni sul tema:
«Ma la schiavitù esiste ancora?»
«Certo che sì! Ma non apertamente»
«Credevo che i francesi l'avessero abolita»
«Ci hanno provato»
«È possibile incontrare degli schiavi?»
«Non è difficile [] Degli affrancati, degli schiavi liberati e degli schiavi che lavorano qui in città» []
«Perché non vanno a lamentarsi presso le autorità?»
«Possono farlo e il Comandante dirà loro che secondo la legge il loro padrone non è il loro padrone. Ma lo schiavo lo sa già. Sa di essere un uomo libero, ma nel suo cuore sa di non esserlo veramente. Sa di essere un bellah e che i bellah sono schiavi. Se acquista la libertà dal padrone allora sì, ma fino ad allora crede che anche i suoi figli appartengano al padrone [] In ogni caso un bellah teme più il suo padrone che le autorità».7
Maugham incontra poi degli schiavi, che gli raccontano le loro vicissitudini e la loro condizione. Il vecchio mercato degli schiavi a Timbuctu si trovava nella grande piazza dove ora c'è il posto di polizia, racconta uno di loro, i padroni erano spesso inumani, dicono altri. Alla fine, a riprova dell'esistenza di un commercio, Maugham riesce addirittura ad acquistare uno schiavo per poi restituirgli la libertà. Ciò che sembra emergere dalle conversazioni è una sorta di accettazione rassegnata della propria condizione da parte degli schiavi. «Ecco qual è il paradosso. I bellah di Timbuctu sono liberi di fronte alla legge. E di fatto sono liberi, ma credono di essere schiavi perché sono stati "condizionati" psicologicamente dai loro padroni, i quali li convincono di essere schiavi».8
A tale proposito voglio riportare una discussione avuta nel 2007 con un cooperante spagnolo, che operava nei villaggi della regione di Timbuctu. Aveva già lavorato in America Latina e in Asia, dove però, diceva: «Arrivi a un certo punto in cui la povertà e la sottomissione provocano la rabbia, la ribellione». Qui, invece, raccontava di come i tentativi di creare cooperative di bellah, al fine di migliorare la loro condizione economica, erano pressoché tutti falliti, in quanto nessuno di loro osava prendere alcuna iniziativa, senza prima chiedere al proprio padrone.
Sebbene oggi non esista più una vera e propria pratica della schiavitù, sopravvivono, a Timbuctu, pratiche di asservimento che ripropongono le gerarchie del passato. Gran parte dei bellah, oggi, non praticano agricoltura né allevamento, vivono raccogliendo legna e carbone. Le ragazze lavorano spesso come serve nelle abitazioni dei tuareg o dei sonrhaï per cifre bassissime: 2500-3000 CFA al mese.9 A loro vengono affidati i lavori più pesanti, ma mai il compito di cucinare, che resta appannaggio delle donne di casa. «Non puoi far cucinare una schiava!» mi ha detto un giorno un giovane tuareg, sottintendendo che «non ci si può fidare».
Come scrive Fabio Viti: «Il segno profondo della schiavitù non è dunque solo una sopravvivenza ideologica, spesso condivisa dai padroni come dagli ex schiavi, ma una pratica attiva rinnovata in dipendenza multiple e obblighi di tipo clientelare, che regolano l'accesso alle risorse».10
Da questa osservazione emerge un atteggiamento caratteristico di questa e di molte altre società africane: quello della dipendenza accettata e persino auspicata. Un rapporto che trasforma due persone l'una in dipendente e l'altra in una sorta di padrone. Un tipo di relazione che, come sostiene Fabio Viti, si basa sul fatto che la società africana e in particolare la famiglia africana sono imperniate su una forma di «solidarietà gerarchica».11 Con questa espressione, coniata da Marshall Sahlins, si intende mettere in luce come la vocazione solidaristica delle società e delle strutture familiari africane sia in realtà attraversata da una più o meno spiccata gerarchizzazione di ruoli, fondata in primo luogo sul sesso e sull'età. Viti pone l'accento sulle strutture familiari, ma possiamo estendere questo modello alle società in senso più ampio, ritrovando gli stessi rapporti di dipendenza tra individui appartenenti a gruppi, classi, caste storicamente gerarchizzate. Tale concezione, secondo Marc Augé, risalirebbe a una sorta di pensiero unico primitivo, secondo cui ogni individuo sa qual è il suo posto nella società e sa che tale posto gli è stato assegnato e così deve rimanere.12
Si viene così a formare una vera e propria cultura della dipendenza, che garantisce «la riproduzione di un'etica dell'obbedienza».13 Dalle tradizionali forme di schiavitù si è passati a un indurimento dei rapporti di dipendenza e sottomissione. Sottomissione che, in un'etica così fortemente gerarchizzata, implica però anche dei diritti di chi è sottomesso e dei doveri da parte di chi sottomette.
6. Se in passato il mezzo più diffuso per approvvigionarsi di schiavi era la guerra, oggi è sostanzialmente il mercato, o meglio, un intreccio tra mercato e guerra a rendere possibili nuove forme di schiavitù. Uno di questi casi è la tragica riproduzione in chiave moderna e meccanizzata dei traffici umani transahariani del passato. Tra il XII e il XIX secolo le rotte sahariane erano percorse da carovane che trasportavano oro, sale, merci di vario genere e schiavi. Le grandi città commerciali come Djenné, Timbuctu, Gao, Ghadames costruirono le loro ricchezze sul traffico di donne e uomini, strappati con la forza ai loro villaggi.
Oggi, attirati dalle immagini dell'Europa e spinti da condizioni di vita sempre più infami, se non da guerre e dittature come nel caso dell'Eritrea, molti giovani tentano di raggiungere le sponde del Mediterraneo, per poi salpare verso nord. La scelta di partire è volontaria, ma una volta arrivati nel deserto tra Niger e Libia, pagando cifre elevate, queste persone diventano veri e propri ostaggi dei loro trasportatori e dei vari intermediari del traffico umano. Nessun diritto è più valido, vale la legge del più forte, quello che ha i soldi e il mezzo per viaggiare. Gli autisti dei camion vendono i loro passeggeri a quelli delle 4 x 4. Questi li rivendono a quelli delle barche. Una volta raggiunta la Libia, molti vengono catturati dalla polizia locale, arrestati, picchiati, derubati e poi rivenduti nuovamente ai passeur. Questi, in cambio di altro denaro, li rivendono ai barcaioli e così via. Un'intera economia si regge sullo sfruttamento di individui costretti in condizione di schiavitù, privi di ogni nazionalità e completamente asserviti ai loro schiavisti, legali e illegali.14
In molti paesi del sud del mondo vige ancora una forma più o meno celata di schiavismo: si tratta dell'apprendistato. Se da un lato tale pratica potrebbe costituire una sorta di avviamento a una professione e pertanto risultare positiva sul piano della formazione, dall'altro, se prolungata indefinitamente nel tempo e se segnata da un rapporto di assoluta subalternità dell'apprendista nei confronti del padrone, ecco che si trasforma in coercizione.
Moderne forme di schiavitù sono anche la costrizione al lavoro coatto esercitato sui bambini. A tale proposito nel l'UNICEF ha proposto una netta distinzione tra quello che viene definito child work e il child labour. Nel primo caso si tratta di quella forma di iniziazione al lavoro, che avviene all'interno del contesto familiare e che consente la trasmissione di un sapere di generazione in generazione. Per esempio, i figli di un contadino che progressivamente vengono avviati al lavoro dei campi rientrano nell'ambito del child work. Diverso è invece il lavoro alienato dei bambini, strappati al loro contesto familiare e messi a lavorare in stabilimenti di produzione, con paghe bassissime e condizioni disumane, come spesso accade in molti paesi asiatici. Questa seconda forma si avvicina molto alla pratica della schiavitù, in quanto i minori, vengono, come gli schiavi del passato, strappati alla loro storia.
Per non parlare del reclutamento di questi ultimi per la guerra, che dà vita a quel triste fenomeno dei bambini soldato. Bambini che fanno la guerra perché quella è la vita, è potere, cibo, denaro, donne da abusare. Anche in questo caso la definizione di schiavitù, che vede lo schiavo in una posizione succube e passiva, diventa però sfuggente. In un accurato e approfondito studio, condotto sui bambini nei conflitti in Africa, in Palestina e nell'Europa dell'est all'epoca dell'Olocausto (l'utilizzo di bambini nelle guerre non è un'esclusiva della nostra epoca), David M. Rosen si chiede fino a che punto quei bambini siano vittime indifese e innocenti del mondo adulto oppure attori sociali a volte consapevoli del loro ruolo.15 Se è vero che nella maggior parte dei casi il reclutamento è forzato, è anche vero che per molti di questi piccoli combattenti, la guerra e la violenza non sempre vengono considerate un'esperienza negativa. «Être militaire c'est être une star» dice un ex bambinosoldato congolese a Rosen: significa potere, prestigio, denaro, sesso, accesso a quei beni occidentali tanto ambiti.
Ci si rende conto di quanto possa risultare fuorviante utilizzare categorie come quelle di "infanzia" o di "schiavitù", in contesti storici, politici e culturali diversi dal nostro, come invece fanno la maggior parte delle associazioni umanitarie che si occupano del problema. Anche la dicotomia vittime/carnefici, così come quella adulti/ bambini, perdono il loro significato, nel momento in cui le figure si confondono e danno vita a dinamiche nuove, dove ruoli e attori sono diversi di luogo in luogo, di epoca in epoca.
Secondo la convenzione ONU del 1956 rientrerebbero nelle pratiche assimilabili alla schiavitù, anche il prestito su pegno e l'usura. Tali gesti prevedono in molti casi un obbligo illimitato e sproporzionato alla natura del debito nei confronti del creditore, come avviene in molti casi nel racket della prostituzione.
Le donne sono state coinvolte da sempre nelle pratiche di schiavitù e quasi sempre la loro assoggettazione passava e passa attraverso l'abuso del loro corpo e delle loro prestazioni sessuali. Le ragazzine comperate nei villaggi del Nepal o della Birmania, sfruttando l'estrema povertà delle loro famiglie, per essere poi costrette a prostituirsi nei vari hotel o locali delle località turistiche del sudest asiatico, sono un caso tristemente attuale di schiavitù. Strappate alle loro famiglie, queste ragazze non dispongono più del loro corpo né della loro capacità riproduttiva, diventando proprietà assoluta dei loro acquirenti. Non molto diverso il caso delle ragazze nigeriane o dell'est europeo, vittime di una vera e propria tratta, e costrette a ripagarsi il viaggio dai loro paesi d'origine, prostituendosi.
Come si vede, anche nelle sue versioni più moderne, la schiava e lo schiavo, finiscono per diventare individui avulsi alle loro famiglie, senza diritti e ridotti a puri oggetti di proprietà da immettere sul mercato.
Abstract: The essay is shaped as a journey -and told as a journal- through and out the territories of the past and contemporary forms of economic exploitation of slave labour in Africa. Following the routes des slaves, from Africa to America, and the integrated cycles of offer and demand that linked American plantations to European markets, the author explores the ways in which men, women and children were de-humanized and transformed into 'socially sterile' individuals, cut at the root both from their families and from their descendants; he addresses and compares different anthropological definitions of the phenomenon of slavery and conflicting interpretations of slaves' social status in African societies; finally he analyzes evidences of the resilience of the phenomenon in Africa after the abolition of slavery in 1926 and focuses, on the one hand, on child labour and recruitment in irregular armies, on the other, in girls and young women involved in trafficking for purpose of sexual exploitation.
1 Claude Meillassoux, Antropologia della schiavitù, tr. it., Milano, Mursia, 1992.
2 Adriana Piga, L'islam in Africa, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 143.
3 Claude Meillassoux, Schiavitù, in Pierre Bonte e Michel Izard (a cura di), Dizionario di antropologia e etnologia, Torino, Einaudi, 2009.
4 Suzanne Miers, Igor Kopytoff, Slavery in Africa. Historical and anthropological perspectives, Madison, The University of Wisconsin Press, 1977, p. 11.
5 Arthur Tuden, Leonard Plotnikov, Essays in comparative social stratification, Pittsburgh, University of Pittsburgh Press, 1970, p. 12.
6 Sidney W. Mintz, Storia dello zucchero. Tra politica e cultura, Torino, Einaudi, 1990.
7 Robin Maugham, Les esclaves existent encore, Paris, Editions Universitaires, 1966, p. 170.
8 Ibidem, p. 178.
9 L'equivalente di 1,25-1,50 euro.
10 Fabio Viti, Schiavi, servi e dipendenti. Antropologia delle forme di dipendenza personale in Africa, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2007, p 235.
11 Ibidem, p. 168.
12 Marc Augé, Poteri di vita, poteri di morte. Introduzione a un'antropologia della repressione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2003, p. 59 citato in Viti, Schiavi, servi e dipendenti, p. 169.
13 Viti, Schiavi, servi e dipendenti, p. 187.
14 Su questo tema si vedano Fabrizio Gatti, Bilal. Il mio viaggio clandestino nel mercato dei nuovi schiavi, Milano, Rizzoli, 2007; Gabriele Del Grande, Mamadou va a morire. La strage dei clandestini nel Mediterraneo, Roma, Infinito Edizioni, 2007; Come un uomo sulla terra, Roma, Infinito Edizioni, 2009.
15 David M. Rosen, Un esercito di bambini, Milano, Raffaello Cortina, 2007.
Biodata: Marco Aime è docente di Antropologia Culturale presso l'Università di Genova. Da anni si occupa di dinamiche identitarie delle comunità e delle relazioni tra culture; ha condotto le sue ricerche prevalentemente in Africa occidentale. È autore di numerosi articoli e saggi e di alcune opere di narrativa (marcoaime@ fastwebnet.it).
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Copyright Firenze University Press 2009
Abstract
The essay is shaped as a journey -and told as a journal- through and out the territories of the past and contemporary forms of economic exploitation of slave labour in Africa. Following the routes des slaves, from Africa to America, and the integrated cycles of offer and demand that linked American plantations to European markets, the author explores the ways in which men, women and children were de-humanized and transformed into 'socially sterile' individuals, cut at the root both from their families and from their descendants; he addresses and compares different anthropological definitions of the phenomenon of slavery and conflicting interpretations of slaves' social status in African societies; finally he analyzes evidences of the resilience of the phenomenon in Africa after the abolition of slavery in 1926 and focuses, on the one hand, on child labour and recruitment in irregular armies, on the other, in girls and young women involved in trafficking for purpose of sexual exploitation. [PUBLICATION ABSTRACT]
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