Introduzione
In questo scritto mi propongo di affrontare alcuni aspetti della natura e del gioco della moda, e dei suoi effetti sulla formazione dell'individuo e la cura di sé nel tempo dei nuovi disagi della civiltà.
Tra i tanti interessi della pedagogia, in ordine ai caratteri della civiltà odierna, rientra a pieno titolo anche quello per la moda. Cercherò qui di riflettere su alcuni elementi propri del funzionamento della moda, discutendone le profonde ricadute per alcune tendenze di fondo della società attuale, l'identità degli individui e i processi di socializzazione. In questa ricognizione mi appoggerò al paradigma della pedagogia critica1, per una critica sociale della moda, e a quello pedagogico della cura di sé2, nella misura in cui, la moda entra a pieno titolo nel dispositivo della cura sui. Risulterà chiaro da quanto cercherò di argomentare come l'incalzare della moda abbia avuto effetti disastrosi sull'identità del soggetto contemporaneo, contribuendo potentemente a segnarne la sua crisi, oggi sempre più evidente.
Sulla moda nell'odierna società dei consumi
Per quanto, in virtù di un forte stereotipo sociale, la moda abbia una delle sue origini più chiare e delineate nell'abbigliamento e nella storia dell'abbigliamento, non possiamo sostenere come essa si sia mai limitata a questo ambito esclusivo. Di fatto la moda si estende a tutto il vasto mondo del mercato degli oggetti, degli atteggiamenti e delle abitudini. Oggi può essere di moda mangiare certi cibi anziché altri, praticare una forma di allenamento in palestra al posto di un'altra, acquistare beni di consumo, quali telefoni cellulari, computer, televisori, automobili, e non solo scarpe, indumenti di vario tipo e occhiali da sole o da vista.
La moda ormai ha un carattere oltremodo pervasivo. Tutto può essere moda e tutto può essere ridotto alla tirannia della moda in ogni campo dell'esperienza di vita, perfino nella scelta del titolo di studio, il corso universitario, la partecipazione ai social network, il recarsi al cinema o al ristorante. Certi cibi sono oggi di moda anziché altri, così come certi film vanno per la maggiore al posto di altri.
Non sorprende notare come la moda sia ormai estesa a quasi tutto il pianeta, e sia propria di ogni fascia della popolazione, dagli adulti ai bambini, non solo agli adolescenti e ai giovani, di tutti i paesi e di tutti ceti sociali, di tutte le idee politiche e religiose, quantomeno nel mondo occidentale.
Quando nei primi anni Duemila si affermarono i primi movimenti no global di opposizione a una certa idea di globalizzazione, intesa quale estensione a tutto il mondo del modello capitalistico nei suoi effetti più deleteri, i giovani che aderivano a quel movimento non erano certo estranei alle influenze del regno della moda. Anche loro avevano una moda, sebbene dal carattere per così dire alternativo. Ma anche questi giovani avevano le loro scarpe Adidas in stile vintage, i loro capelli rasta dal taglio studiato, il loro modo intrigante e seduttivo di atteggiarsi fumando sigarette o marijuana.
È un dato di fatto che con la moda al tempo di oggi debbano confrontarsi e fare i conti tutti i gruppi e le categorie sociali. Non esiste infatti teoricamente e potenzialmente persona che ne sia immune, e ambito della vita mentale e sociale che dalla moda non sia in qualche modo contaminato.
Gli effetti deleteri della moda sul modo di funzionare delle persone sono tangibili in rapporto a determinate categorie fondamentali di comprensione del disagio contemporaneo, oggi sempre più disarmante e dilagante.
Prima di addentrarsi in questi aspetti è forse giusto partire da una breve analisi di quello che è il meccanismo del costituirsi e del diffondersi della moda stessa.
Per quanto le grandi multinazionali a fini di lucro e anche di controllo sociale esercitino o tentino in vario modo di esercitare un essenziale controllo sulla moda, il meccanismo attraverso il quale una tendenza si diffonde in primo luogo nella popolazione giovanile è di fatto imprevedibile.
A un certo punto nasce una nuova tendenza, essa vola nell'aria pronta ad essere raccolta e interpretata facendola propria da qualcuno, e "pam", con un colpo di bacchetta magica una nuova moda entra nell'immaginario. Che poi questa nuova tendenza risulti esteticamente gradevole o eticamente condivisibile questo è un altro paio di maniche. È significativo che le mode più recenti prescindano sempre di più dal lato estetico in sé, mentre invece siano sempre più dipendenti da un aspetto pragmatico e simbolico, attraverso il quale l'adesione alla moda viene a confrontarsi inesorabilmente con la ricerca, la conquista e l'attribuzione del potere.
Generalmente vi è una piccola comunità elitaria a fare da battistrada o da apripista nella creazione o nel revival di una moda. È giusto notare un aspetto saliente della moda di oggi. Essa sembra in larga misura essersi svincolata dai canoni della tradizione. Uno stile di tipo classico è ciò che rendeva la moda di un tempo dal carattere in qualche modo più solido e salutare. Questo stile anzitutto aderiva a un canone estetico che faceva del gusto la sua arma vincente. In secondo luogo, la moda classica è una tendenza che tiene conto della prospettiva temporale di passato, presente e futuro. Il carattere di tipo classico aveva cioè una serie di attributi importanti che ne facevano un esercizio di tipo essenzialmente salutare.
Come già detto, un'importante caratteristica della moda è l'adesione a un canone forte di tipo estetico. Esso dovrebbe esprimere misura nel rispetto della tradizione, delle leggi implicite della gradevolezza estetica, e non dobbiamo dimenticarci del meccanismo attraverso cui ogni moda comunica qualcosa a livello di simbolismo implicito. Il lato estetico della moda infatti non può di fatto prescindere da quello valoriale del contatto con i significati etici. Se un vestito echeggia attributi di tipo militare, esso veicolerà inevitabilmente qualcosa di militaresco. Se ad esempio tende troppo al nero, esso potrà rinforzare il suo legame con il lutto, la religione, oppure con la guerra, o addirittura con l'evocazione del fascismo o del nazismo. Un abito color caki a sua volta ci riporterà implicitamente con la memoria allo stile dell'epoca coloniale. Questo aspetto fondamentale della moda, nella sua capacità implicita e inconscia di evocare attributi di tipo storico e dunque etico, è una sua componente centrale che ne rende conto non solo del gusto e della misura, ma anche di suoi significati, caratteri e attributi assai rilevanti.
Tornando al discorso di prima, un aspetto patologico della società odierna è quello che si esprime attraverso il fatto che sembra che sia stato perduto questo legame forte con il passato e la tradizione. La tipica tendenza ricorsiva, oggi sempre più accentuata, nella circolarità della moda, al riemergere di mode diverse, tra loro re-mixate come in un eterno rimescolare delle carte, tende inevitabilmente a un rapporto disturbato con la storia. Il meccanismo che sembra predominare è un meccanismo confusivo, attraverso il quale nella moda vengono mischiati e uniti a forza elementi dal significato molto diverso tra di loro, che riflettono questa confusione non solo tra i generi e gli stili, ma anche tra i caratteri storici. Il risultato spesso è una grande confusione, nella quale il messaggio ultimo che trapela è uno scarso rispetto della memoria del passato, per sposare invece l'idea futuristica di un presente che del passato può farsi beffa perché comunica un messaggio di potere, di tracotanza o di sopruso.
La moda al giorno d'oggi sembra essere sempre più legata a caratteri di un tipo prettamente adolescenziale. Non che la moda sia solo congegnata per gli adolescenti. Al contrario esistono consumatori di tutte le età. Ma lo stato mentale che essa tende a veicolare ed esaltare sembra essere uno stato mentale di tipo adolescenziale, nel quale predomina il senso di una moratoria, di una temporalità limitata (Lipovetsky, 1987), di una rottura col passato ma anche con l'idea di futuro.
Ne abbiamo una testimonianza ad esempio nel proliferare della moda del praticarsi dei tatuaggi nel corpo. Per quanto un tatuaggio in parte possa essere annullato e compensato con un intervento di chirurgia estetica, ba- sato nella fattispecie sulla tecnica del laser, esso denota diversi caratteri che fanno discutere ed emanano aspetti inquietanti. C'è infatti dietro la scelta di tatuarsi la pelle l'idea di fabbricare sul proprio corpo un marchio indelebile che mai scomparirà. In questo è presente anche una fantasia maniacale, che solo il presente o il futuro a breve termine abbiano significato e siano degni di investimento emotivo, senza pensare al futuro meno prossimo, nel quale, superata l'euforia maniacale dell'impronta vistosa, il marchio mostrerà tutto lo scempio che è stato perpetrato sul proprio corpo. Che cosa accade infatti quando il tatuaggio non va più di moda, o quando la persona semplicemente invecchia, ed esce da quello stato mentale di notevole ma anche mortifero narcisismo. È evidente il meccanismo di profonda negazione alla base della scelta di praticare un tatuaggio sul proprio corpo. Esso sembra riflettere una fantasia onnipotente che esalta non il bello, ma il brutto che tuttavia esprime un senso di potere. Il potere di appartenere a un gruppo esclusivo, di trascendere la dipendenza normale dall'amore di sé, di esprimere la propria forza violando i canoni estetici normali, attraverso un gesto violento di rottura con i canoni del gusto tradizionale. È la volontà di sentirsi "fighi" o "ganzi", cioè forti e potenti, e non semplicemente belli, la molla che spinge a praticare sul proprio corpo un tatuaggio.
Come ci ricorda Lipovetsky (1987), la moda assume da sempre un'idea di temporalità limitata, in antitesi ai tempi lunghi della tradizione. In questa idea futuristica di rottura noi possiamo cogliere un senso di disprezzo della tradizione. Non sorprende che i canoni della moda di oggi siano intrinsecamente legati alla mentalità consumistica del neoliberismo.
Il neoliberismo infatti, come movimento politico ed economico, ebbe la forza di rompere i canoni della tradizione3. Per la prima volta venivano difesi gli interessi non di una oligarchia sedimentata negli anni attraverso vecchi privilegi. La difesa era piuttosto verso gli interessi di un sistema; un sistema, qui si sostiene, che esaltava l'avvento dei nuovi ricchi. Il neoliberismo in questo senso si faceva portatore della difesa degli interessi di una classe egemone, ma questa classe era dai confini porosi e in contrasto con la tradizione. Sotto questa luce, ciò che contava nel progetto neoliberista era incrementare le diseguaglianze sociali e difendere, costi quel che costi, un meccanismo di accumulazione del potere e del capitale (Harvey, 2010). L'identità e la paternità di chi via via tenta con successo una scalata in un'impresa sono un problema secondario in quest'ottica. La difesa del meccanismo alla base del sistema sembra venire prima della tutela di una specifica cerchia di uomini appartenenti a una determinata classe sociale.
La moda così viene ad assumere questo significato nella società di massa: l'emulazione del ricco, del forte, del potente, all'interno di un sistema che è chiuso dal punto di vista delle sue regole di funzionamento di fondo, ma aperto e permeabile nel costante mutare e alternarsi dei membri della classe egemone. Il capitalismo in questo senso ha trasformato i sudditi in consumatori, come ebbe a sostenere Pasolini (1976) in un'osservazione ripresa da Recalcati (2010).
Anche Bauman (2008) si è soffermato di recente su questi aspetti: con la globalizzazione i cittadini si sono trasformati sempre più in un esercito di consumatori. Consumo dunque sono: è il nuovo imperativo nel quale sembrano riconoscersi ampie masse di persone.
La moda e i suoi meccanismi di regolazione
Il meccanismo di funzionamento della moda è un meccanismo noto intuitivamente, ma che è il caso di rivedere di nuovo qui più in profondità. Come già aveva fatto notare a suo modo Georg Simmel (1895), contrariamente a quello che si potrebbe pensare, la moda assume solo in parte un meccanismo di omologazione. O meglio, il risultato è quello di una omologazione o conformazione a uno specifico trend, ma il fine originario, la molla da cui parte il grande gioco della moda (Lipovetsky, 1987) non è di arrivare a possedere quello che hanno tutti. È piuttosto quello di avere ciò che possiedono e che incarnano la persona in, le persone "fighe", secondo una brutta parola del gergo giovanile, gli eletti, la classe dominante della società. Essere alla moda in questo senso non significa seguire un gregge. Significa seguire i dettami del potere, incarnato dai gusti e i capricci della classe dominante. Torna qui di attualità inevitabilmente il concetto di feticismo della merce di marxiana memoria, caro anche agli studiosi della Scuola di Francoforte.
Nel normale meccanismo intrinseco alla moda stessa accade poi che un messaggio si diffonda a tal punto da essere fatto suo da tutti, ma proprio da tutti. A quel punto la moda raggiunge il suo clou, a cui seguirà un momento di vuoto, di stasi e la ripartenza di un nuovo ciclo nella rincorsa di un nuova tendenza alla moda. In questo senso quella della moda è sì una dittatura della maggioranza, ma non puramente in quanto maggioranza, quanto insieme di persone che scelgono di uniformarsi e conformarsi, quantomeno nella parvenza, al canone della classe elitaria di una società.
Alcune osservazioni teoriche di Massimo Recalcati (2010) forniscono implicitamente elementi per un'analisi di aspetti salienti di questo meccanismo diabolico della moda. All'interno della sua visione della personalità umana, fortemente ispirata al pensiero di Lacan, egli ha ripreso la distinzione tra desiderio e godimento. Se pensiamo nella prospettiva di Recalcati, il meccanismo della moda, così descritto, sarebbe implicito del godimento, in antitesi alla valenza molto più salutare del desiderio. Mentre il desiderio reclama infatti un processo di soggettivazione per esprimersi e prendere corpo, il godimento implica un'adesione al principio del piacere, che taglia in un certo modo i ponti sia con l'Altro che con il legame libidico. Il desiderio reclama per potersi manifestare ed esprimere un oggetto, investito di un legame libidico. Esso implica contatto con la realtà e con le proprie emozioni autentiche e genuine. Il godimento non richiede questo lavoro psichico a monte, ma implica un'ade- sione a un principio del piacere di stampo perverso, che si oppone al desiderio autentico e cala la personalità in un territorio e in un paesaggio mentali molto più alienanti e in verità mortiferi.
Il meccanismo di funzionamento della moda, così descritto, rientrerebbe, rifacendosi al punto di vista lacaniano di Recalcati, nell'orbita del godimento. Esso non prevede un legame di fecondazione autenticamente libidico con l'oggetto per esprimersi, ma implica piuttosto una coazione a ripetere di stampo maniacale, che esclude l'altro, i sentimenti buoni, e non richiede un processo di soggettivazione, quanto un'adesione conformistica alle norme del gruppo dominante.
Recalcati fa l'esempio di un gruppo di giovani che si radunano all'interno di una discoteca. Il loro non è uno stare in gruppo per condividere realmente qualcosa. In realtà tutto ciò si configura come uno stare soli in gruppo. Stare soli per aderire a un principio di godimento, ossia per alimentare interiormente un vissuto di onnipotenza che alimenta la sensazione maniacale di essersi "fatti" da soli, di non dipendere dall'Altro e dall'oggetto di amore, quando in realtà si è irrimediabilmente soli nel profondo.
Recalcati parla anche del cosiddetto principio da prestazione, riprendendo un concetto di Marcuse (1964), in seno al culto della performance e del successo sociale, e ne riconduce l'origine al ruolo educativo dei genitori, a una crisi generalizzata del discorso educativo cui si associano nuove forme distorte di vivere la genitorialità e impostare la relazione genitore-figli.
I genitori in questo contesto tendono sempre di più ad assomigliare ai propri figli, perché si nutrono essenzialmente della fantasia di restare eternamente giovani. Recalcati a tale proposito pone l'esempio di una madre in cammino verso l'età di mezzo che, accompagnando una figlia adolescente in un negozio di abbigliamento, compra per sé quello che in verità dovrebbe vestire la figlia.
È evidente che siamo di fronte a una profonda distorsione del rapporto educativo. Genitore e figlio sono posti alla pari, sullo stesso piano, entrambi dediti al godimento e sudditi del principio da prestazione.
In quest'ottica, il genitore non può tollerare di dire di nò al proprio figlio, di imporre un senso del limite. Vuole invece patologicamente essere amato dal proprio figlio, per soddisfare il proprio narcisismo e soprattutto negare i propri sensi di colpa verso il figlio, per il fatto di non amarlo come dovrebbe. Per realizzare questo è disposto a non porre limiti al figlio stesso. Quello che sembra spaventarlo è il fallimento nel principio da prestazione, l'angoscia che il proprio figlio cresca brutto, "sfigato", non vincente, non trionfante, non realizzando le aspettative narcisistiche che il genitore proietta su di lui investendolo di un ruolo magico.
Recalcati parla anche delle nuove droghe, sostenendo acutamente come il cambiamento che è avvenuto nel loro consumo, con il diffondersi della cocaina nella classe media a scapito dell'eroina, è un altro pericoloso indizio del dilagare del principio da prestazione e del diffondersi della paura e di un'angoscia generalizzata da non adattamento. Al giorno d'oggi si assume la sostanza non per realizzare una fuga dalla realtà, ma per potersi adattare meglio. Il fine non è più la trasgressione, ma la realizzazione illimitata del godimento. Chi assume la sostanza non vuole evadere dalla società, realizzare una fantasia consolatoria di fuga dal reale per colmare un vuoto di amore. Vuole piuttosto trionfare in una competizione narcisistica, che non ammette sconfitta e fallimento.
L'imperativo della moda in questo senso è ciò che procrastina l'immagine di un godimento illimitato. Vincente è colui che realizza un godimento perpetuo, e poco importa se ciò segna la morte alla radice del desiderio, dell'autentica immagine di qualcosa di vivo e di buono a cui dedicarsi.
Recalcati sostiene anche che in questa crisi del discorso educativo ciò che viene a mancare è il ruolo del padre nel suo profondo significato simbolico di trasmissione di una eredità, non da intendersi come fardello di un qualcosa da imitare acriticamente, ma come insegnamento legato a una buona immagine di trasmissione di un senso del desiderio, tale da mostrare al giovane figlio la via. La via attraverso cui anch'egli possa realizzare un proprio desiderio, che non può essere altro che una cosa sua, una cosa propria, che presuppone alla radice un processo di soggettivazione e culmina creativamente in qualcosa di altro e di diverso, come punto di approdo del percorso originario.
Sulla stessa lunghezza d'onda del discorso di Recalcati mi sembra interessante un concetto alla radice già enucleato dagli autori della Scuola di Francoforte come Fromm e Marcuse, e ripreso in ambito psicoanalitico da Meltzer, ispirandosi anche al pensiero di Bion.
Fromm (1941) e Marcuse (1964) parlavano della difficoltà del singolo di ribellarsi alle pressioni sociali patologiche. In Bion (1961) questa osservazione trova un corollario nel concetto di assunto di base. Il gruppo è sempre tentato di funzionare in senso regressivo, laddove la capacità del singolo di ribellarsi alla regressione indicherà un profondo e duro lavoro del pensiero. Questo concetto viene ulteriormente elaborato da Meltzer (1986). Si deve distinguere, Meltzer dice, le manifestazioni che sono frutto di una mente autonoma e quelle che invece riflettono l'adesione automatica alle pressioni sociali patologiche del gruppo in assunto di base. Solo nella prima condizione si può produrre pensiero, cioè elaborazione attraverso la fantasia di un contenuto autentico, mentre nel secondo caso avremo qualcosa che somiglia piuttosto al funzionamento di una macchina, nella sua attitudine essenziale a 'non pensare'.
Galimberti (2008), nell'interrogarsi sul fine recondito della moda, mette in guardia da quelli che sono i rischi impliciti di una sua profonda ricaduta negativa per l'identità personale. La costruzione e la formazione dell'identità personale in quest'ottica hanno tempi lunghi e prevedono un percorso di individuazione che stride inevitabilmente con la temporalità limitata delle mode. Le mode in questo senso esprimono superficialità, laddove il processo autentico di soggettivazione, termine ripreso anche da Recalcati sulla scia di una lunga teorizzazione psicoanalitica, presuppone invece di misurarsi con il tempo dell'assenza e con quello lungo della sperimentazione.
Il fine di un processo di soggettivazione autenticamente riuscito implica quel senso di individuazione che si oppone alla facciata della maschera e ri- fiuta il feticcio delle mode, con il loro significato intrinseco di adesione posticcia ai dettami delle pressioni sociali patologiche di un gruppo orientato narcisisticamente.
Proviamo a rivedere questo concetto in un'ottica ancor più profonda. Il nostro vero Sé, la parte di noi stessi più profonda, sincera, autentica e peculiare, quello che Christopher Bollas (1989) ha chiamato idioma, si sostanzia nella scelta e nell'uso soggettivo degli oggetti. Ciascun individuo ha un proprio vero Sé, una parte di sé autenticamente profonda e sincera, così come un falso Sé, una parte di se stesso più superficiale e di facciata. Winnicott (1960) diceva che in circostanze normali il falso Sé copre e protegge il vero Sé, rappresentandone la parte adattiva verso l'ambiente esterno. In circostanze patologiche invece il falso Sé viene a offuscare, annebbiare o ostacolare il vero Sé, che in tal modo ne verrà soffocato e più o meno in piccola o larga parte annullato.
Ciò che Bollas chiama idioma, il nucleo più specifico e peculiare della personalità di ciascuno, si forma fin dalla nascita dall'incontro di un corredo genetico, unico per ciascun individuo, con l'idioma di cure della madre. È la madre, con la sua sensibilità e capacità di cura, a contribuire potententemente a infondere nel bambino un senso del Sé, della sua specificità, peculiarità e unicità di persona. L'idioma non è dato una volta per tutte. Anche se ciascuno di noi è se stesso fin dall'inizio, e possiede un senso della propria peculiarità, che è destinato a non essere mai veramente modificato nel corso dello sviluppo, esso è sotto un'altra luce in costante evoluzione. L'evoluzione deriva dall'esperienza, dall'educazione e dalla formazione; nella parole di Bollas dall'incontro soggettivo con gli oggetti, animati e inanimati, e in particolare dall'uso che ciascuno sceglie consciamente e inconsciamente di fare di tali oggetti.
In questo senso la creatività deriva strettamente dall'uso degli oggetti, dal significato personale, soggettivo e creativo che ciascuna persona è in grado di consacrare nel loro uso al servizio del vero Sé. Una persona dotata di una particolare sensibilità ne farà un uso più creativo di un'altra, anche se non è detto che ella possieda una gamma più ampia di oggetti, tali da evocare in se stessi la capacità di sperimentare esperienze vive e salutari.
Come entra, ci possiamo chiedere, la moda in questo discorso? È chiaro che il meccanismo della moda, con i suoi caratteri di omologazione, conformazione, omogeneizzazione, rischia di interferire anche pesantemente con il consolidamento dell'idioma. In questo senso possiamo sostenere che la moda porti acqua al mulino del falso Sé, piuttosto che del vero Sé. Il vero Sé, cioè l'idioma, reclama per potersi esprimere al meglio di un uso personale, soggettivo e creativo degli oggetti, che stride con la dittatura delle mode, che vengono invece a rappresentare un qualcosa che in termini psicoanalitici ricalca il meccanismo dell'identificazione proiettiva: un corpo estraneo che viene immesso a forza nell'Io, perché l'Io si identifichi con esso anche quando è in stridente contraddizione con il vero Sé, la parte di se stessi più vera, sincera, autentica, vitale.
Questo non significa che tutti gli usi della moda siano negativi, anzi. Ciascuna persona potrà servirsi, diversamente dalle altre, dell'uso degli ogget- ti messi a disposizione dal vasto armamentario delle mode, per articolare e plasmare aspetti creativi del proprio idioma personale. Ma quando la moda diventa un diktat, una dittatura, un obbligo a cui adempiere, quando di stagione in stagione ci si sente obbligati a ottemperarla, in quello che diventa a tutti gli effetti un falso Sé, in cui il vero Sé è imprigionato e come imbrigliato o addirittura annullato; quando in altre parole il Sé si riduce al rango della sua maschera di facciata, è chiaro che siamo dentro a un meccanismo non salutare, ma alquanto patologico di vivere le mode e anche il rapporto con se stessi e la propria identità di persona.
Il posto della pedagogia di fronte al dilagare della moda
Le considerazioni fin qui svolte ci interrogano anche, inevitabilmente, sul posto da assegnare alla moda in un modello pedagogico eticamente avanzato, e nello stesso tempo sul posto da attribuire alla pedagogia di fonte all'incalzare del mito stesso della moda.
Mi propongo di affrontare qui, sia pure brevemente questi temi, con un riferimento sia al modello della pedagogia critica sia a quello della cura di sé, che insieme delineano una teoria dell'individuo-soggetto-persona (Cambi, 2007), così cara alla riflessione pedagogica attuale e contemporanea.
In linea generale e in circostanze ottimali due tra le altre dovrebbero essere intese come funzioni sane e salutari della moda. Da un lato, per la persona giovane, la possibilità attraverso il costante aggiornamento delle mode di non perdere il contatto e il tramite con la propria generazione. Stare al passo della moda significa in questo senso stare al passo con i tempi, e dunque in una certa misura più a contatto con la realtà non solo personale, ma anche sociale e condivisa. La moda, è stato già rimarcato, è anche e soprattutto un gioco attraverso cui, con un costante rimescolamento di carte, è anche possibile giocare con una parte della propria identità personale, potendo condividere e socializzare aspetti di sé in relazione agli altri.
Da un altro punto di vista un'altra funzione salutare della moda dovrebbe essere considerata in rapporto allo sviluppo del senso estetico, come importante aspetto della cura di Sé. Lo sviluppo del senso estetico a sua volta, incentrato sulla propria persona come polo di riferimento, permette anche di concorrere allo sviluppo del senso della propria identità corporea4, come importante fulcro del proprio concetto di sé, del proprio riconoscersi persona. Il senso estetico è in quest'accezione legato al senso del bello, come qualcosa, potremmo aggiungere, che esprime misura e padronanza nel potere giocare, attraverso la condivisione con altri, con la propria identità, godendo della fruizione estetica nell'esercizio del plasmare il proprio corpo e la propria immagine.
Il senso estetico a sua volta può essere educato. E paradossalmente sono proprio le prime esperienze estetiche del bambino, nell'ambito delle rela4 zioni familiari, ciò che forse più di ogni altra cosa influisce sulla propria visione estetica del mondo. È il modo con cui la madre tocca e manipola fisicamente il bambino ad esercitare un ruolo sul modo con cui il bambino utilizzerà gli oggetti della realtà esterna al servizio della propria esperienza di sé (Bollas, 1987).
Ma la moda, tuttavia, diventa qualcosa di patologico quando non lavora nella direzione di questi obiettivi, ma tende a sostituirli con altri, a ben vedere molto più falsi e patologici.
Vi è qualcosa di molto patologico nell'imperare della moda di oggi, qualcosa che lavora in controtendenza con lo sviluppo dell'individuo-soggettopersona, in rapporto al quale la pedagogia critica non può che assumere una posizione di opposizione, se vogliamo di minoranza, ma in una direzione che ci sembra debba essere a tutti i costi difesa, custodita, mantenuta.
C'è anzitutto un lato fortemente tirannico nella moda di oggi. Un aspetto troppo pervasivo, totalizzante, che diventa in stridente contrasto non solo con un senso estetico, ma con una finalità etica. L'etica entra inevitabilmente in gioco di fronte all'incalzare delle mode, quando queste pretendono di contare troppo nella vita di una persona, rubando il campo ad altri importanti aspetti della cura di sé e della sviluppo armonico della personalità. Quando la moda diventa adesione tirannica al pensiero di una cultura dominante, tanto pervasiva quanto superficiale, vi è chiaramente qualcosa che non va. È inevitabile cogliere in questo processo un aspetto patologico, legato all'edonismo, al consumismo, al narcisismo, come piaghe sociali del mondo di oggi, ma oserei dire anche a qualcosa di più: una sorta di dittatura o di pensiero unico, che tende verso l'obnubilamento della mente e della coscienza, in una coazione a ripetere e in uno stimolo forzoso al non pensare. La moda allora diventa un modo di distrarre, attraverso un gioco mortifero, la coscienza dai problemi sociali reali. C'è in questo qualcosa che fa a pugni con il senso di solidarietà sociale, perché una vita troppo aperta alla dimensione dello svago e dell'evasione non è vita genuina, in specie di fronte ai gravi problemi che coinvolgono la nostra società.
Tutto ciò, tra l'altro, come già ho avuto modo di sostenere (Fratini, 2013), ha anche il potere di mettere in crisi il pensiero di sinistra. Come possiamo riconoscerci ancora in valori di solidarietà sociale e nella difesa dei diritti dei più deboli, quando poi ciascuno è sempre più ripiegato in una ossessione della cura del proprio corpo, tanto fine a se stessa quanto tale da veicolare un messaggio di tipo narcisistico, in spregio all'interesse per gli altri e alla dipendenza affettiva dagli oggetti amati.
Curiosamente, in questa esasperazione del culto della moda, anche il senso estetico viene alla lunga irrimediabilmente tradito e forzato. Il senso del bello per potersi mantenere ha necessità di quel gioco creativo che deriva alla radice dal mantenimento di un forte senso etico. Il bello in quest'ottica non può prescindere dal buono, come sosteneva il poeta John Keats (1819). Ma quando l'estetica viene piegata al servizio della ricerca del potere, ancorché di stupire, non vi può essere più autentico senso della bellezza. È questa sostanzialmente anche la spiegazione per cui in questi anni assistiamo a un debordare della moda in direzione sempre più estreme, inquietanti, angoscianti. La moda non esprime più la bellezza, e men che meno la femminilità. Essa è sempre più intesa invece come collegata alla quintessenza del potere.
Non si segue una moda per essere belli, ma per essere potenti, al passo di ciò che l'immagine del potere, per definizione conformistica, detta chiedendo obbedienza.
Tutto questo, come già accennato, ha profonde nefaste ricadute sul senso dell'identità personale, che invece presuppone il compiersi di un processo di soggettivazione legato a un delicato equilibrio tra apertura alla socialità e conquista di una propria autonomia, tra confronto con l'Altro e sviluppo di un pensiero critico e autonomo. Tale pensiero critico, mai come oggi, appare nemico delle mode ma, al tempo stesso, purtroppo condannato sempre più a mantenersi su posizioni di minoranza.
È per questo che il fare proprio un modello di pedagogia critica, collegato alla cura di sé, non può che andare nella direzione di un atteggiamento molto critico nei confronti degli imperativi delle mode, verso una difficile posizione di resistenza5, tanto più ardua da mantenere quanto più numericamente ridotta a un esiguo nucleo di coloro che rifiutano l'adesione acritica a forme nefaste di pensiero dominante.
Si tratta di quelle forme che spingono per aderire all'uso di beni di consumo utilizzati come droghe sociali, per evitare di pensare e via via per 'non sentire' o 'sentire sempre meno', avallando così un nefasto processo sociale di incremento delle diseguaglianze. La moda, come già aveva messo in luce Marcuse (1965), in un'ultima analisi ci spinge proprio in questa direzione: l'emulazione della classe dominante, per essere come "loro", per crearsi l'illusione di essere forti, potenti, trionfanti, quando il mondo occidentale in realtà rischia di andare sempre più giù, come a picco, verso una crisi sociale sempre più grave e devastante.
Per dirla nel vecchio linguaggio del marxismo o degli autori della Scuola di Francoforte, c'è nella moda un meccanismo diabolico attraverso il quale il proletariato, o oggi meglio, potremmo dire, la classe media, si sottomette ai canoni del grande capitalismo, allo scopo di imitarli, anziché trovare il coraggio di una ribellione lungo la via di più salutare emancipazione. Quell'emancipazione su cui tanto ha insistito il pensiero di sinistra e che resta il fine principale, nonostante tutto, a cui tende anche la pedagogia. Ciò per realizzare, come sosteneva ancora Marcuse (1965), il fine autentico della felicità. Una felicità che non può prescindere da un ideale di libertà e di solidarietà sociale.
Tutto questo sembra tanto più vero nel tempo di oggi, un tempo purtroppo di stagnazione e forse di regressione, senz'altro di crisi profonda dell'umanità in Occidente.
Through a pedagogical lens, this article examines certain characteristics of fashion in an era of the new discontents of civilization. It discusses certain elements of the operation of fashion, especially in relation to the sense of Self and individual identity. The article argues that the current cumbersome place that fashion plays in the lives of individuals has profoundly negative effects on the identity of the contemporary subject. In the last part of the article, a portion is dedicated to the role of education in the face of the relentless pushing of fashion, strongly reaffirming, in accordance with the perspective of critical pedagogy and the model of Self care, a civil position of resistance in the face of the hegemony of prevailing conformism
1 Si rimanda a tale proposito, tra gli altri, a Cambi (2006), Colicchi (2009) e a Spadafora (2010).
2 Vedi al riguardo Boffo (2005), Mortari (2006) e Cambi (2010a).
3 Per una storia del neoliberismo è da vedersi lo studio di Harvey (2005).
4 un'analisi del corpo in pedagogia cfr. Sarsini (2003) e Mariani (2010).
5 Sulla resistenza in pedagogia vedi Mantegazza (2003); Contini (2009), ma anche, più di recente, Cambi (2010b) e Ulivieri (2012).
Riferimenti bibliografici
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Copyright Firenze University Press 2015
Abstract
Through a pedagogical lens, this article examines certain characteristics of fashion in an era of the new discontents of civilization. It discusses certain elements of the operation of fashion, especially in relation to the sense of Self and individual identity. The article argues that the current cumbersome place that fashion plays in the lives of individuals has profoundly negative effects on the identity of the contemporary subject. In the last part of the article, a portion is dedicated to the role of education in the face of the relentless pushing of fashion, strongly reaffirming, in accordance with the perspective of critical pedagogy and the model of Self care, a civil position of resistance in the face of the hegemony of prevailing conformism
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